Prima
parte: "FANGO CHE DIVENTA LUCE
"
In quest’opera c’è il
ritratto, l’istantanea, di qualcosa di attuale e invisibile.
C’è un dolore che sembra
riguardare soprattutto l’occidente: la spaccatura micidiale fra noi e l’anima
del mondo, quell’energia intuita e sempre tradita, che ci tiene vivi.
Questa "anima del mondo",
taciuta con superiorità dalla scienza, rimpicciolita a corpuscolo con macchie
dalla religione, resa ridicola dalla razionalità, resa retorica e melensa
dalla lingua corrente, ecc.,
questo pezzo di brace
cosmica che brucia nella terra e in ognuno di noi,
questo è ciò che
goffamente viene fotografato in questo primo paesaggio.
E’ anche fotografata la
distanza fra ciò che sentiamo e il modo in cui viviamo,
fra il nostro dentro e il
nostro fuori, per dirla semplicemente.
“Come siamo andati
lontano da ciò che ci tiene in vita!” grida la filosofia.
Qui appunto si fotografa
quella lontananza.
Non so se ciò avvenga
attraverso i corpi dei tre animali in scena, la loro leggerezza, dolcezza,
bizzarria, forza, o se avvenga piuttosto “in mancanza” , cioè in quella
sottolineature che prende a volte ciò che viene nominato in assenza.
Ho detto ‘goffamente’ per
dire che tutto in scena pare fuori misura, perché in realtà è come avere a che
fare con un torrente, con un incendio, con un terremoto, con qualcosa insomma
che non ci sta dentro la compostezza e la misura di uno stile.
Un tema davvero
incandescente, in cui è facile bruciarsi la faccia e la veste. Ma pensiamo che
il teatro sia proprio questo sporgersi sul presente e cantarlo, come hanno
fatto i classici, con la propria lingua, cantarlo ai contemporanei (cioè a
quelli vivi con noi adesso), con segni che a loro appartengono.
E soprattutto cantare ciò
che più è taciuto, con tutti i rischi che ciò comporta.
Come sempre di fronte ai
lavori di Cesare, la razionalità non è la miglior guida alla visione,
quanto piuttosto
l’abbandono. La sua regia non procede mai progettualmente, né razionalmente ma
per intuito, folgorazioni, strappi, accensioni. E soprattutto nel rapporto
stretto con gli attori:
nel breve tempo di prove,
le sei figure in scena sono cresciute in modo per me sbalorditivo,
hanno assunto forza,
pienezza, urgenza, bravura. Ciascuno porta la fiammella avuta in consegna
e la rilancia: una
sacerdotessa che è tutta pensiero e voce, un macellaio col quale è facile
identificarsi, violento e pietoso, sbagliato dalla radice e scatenato, un
organista che vola sui pedali di legno e dà suono a tutto ciò che avviene in
scena. E da ultimo, di nuovo, i tre animali:
la loro forte anima ci fa
sentire quanto di noi, adesso, manchi. A loro abbiamo dato le parole di un
poeta molto caro alla compagnia: Milo de Angelis.
So che le parole che ci
ho messo io sono su un limite, e forse qua e là cadono: insomma consegno un
dono avendo a volte le mani sporche. Ma è solo terra, fango: chi vuole potrà
scrollarselo di dosso e lasciare che esse facciano il loro lavoro di parole
riverberanti. Questo succede quando si scrive dentro la scena, e si è in
qualche modo travolti da ciò che ogni giorno, lì dentro, succede.
M.G.