Perdizione

 

Titolo originale: Kárhozat. Regia: Béla Tarr. Sceneggiatura: László Krasznahorkai, Béla Tarr. Fotografia: Gábor Medvigi. Montaggio: Ágnes Hranitzky. Scenografia e costumi: Gyula Paver. Musica: Mihály Víg. Interpreti: Miklós B. Székely (Karrer), Vali Kerekes (la cantante), Gyula Paver (Willarsky), Hédi Temessy (la guardarobiera), György Cserhalmi (Sebestyén). Produzione: Magyar Filmintézet, Magyar Televizio, Magyar Hirdeto, Mokép (Budapest). Origine: Ungheria, 1987. Durata: 116'. Formato: 35mm, bianco e nero, 1:1,85.

 

 

«Mi sembra che i miei film parlino tutti, in una forma o nell'altra, dei sistemi in cui si articolano le relazioni umane, dei rapporti tra gli individui, degli interessi e dei sentimenti. Un nuovo film può essere sia un seguito che un prolungamento sul piano della riflessione, rispetto al precedente. Perdizione credo sia piuttosto un prolungamento. Si tratta di un film molto differente da Almanacco d'autunno, intanto perché l'azione non si svolge in un universo chiuso, e poi perché siamo ricorsi ad elementi diversi dal punto di vista dell'immagine e dell'atmosfera, e poi relativamente allo strumento verbale, al linguaggio. László Krasznahorkai, che si è aggiunto a noi come autore, ha avuto in questo un ruolo determinante. E' stata la prima volta nella mia vita che ho potuto scrivere qualcosa con un'altra persona. La sua amicizia e le sue idee mi hanno dato l'ispirazione.

Nelle culture dell'Estremo Oriente c'e una nozione, quella di spazio intermedio, che indica che non esiste niente tra due cose. Nulla se non il recettore, lo spettatore, la sua personalità e la sua sensibilità. Questa nozione esiste anche in altre culture, ma non in

quella europea, che non ha approfondito questo concetto e non ne ha fatto derivare alcuna pratica estetica. Non è pervenuta a farne una forma, perché essa pensa razionalmente, linearmente.

In questo film la vicenda è del tutto accessoria. Il film parla dei paesaggi, degli elementi e della natura, di un mondo separato in cui non resta più nulla. Noi abbiamo voluto lasciare andare lo sguardo a briglia sciolta... Ma nella realizzazione di un film c'è di bello che sono io, dopotutto, a scegliere cosa deve arrestare lo sguardo...

Per noi, la questione è sapere se si può veramente parlare di prospettive, o meglio se si tratta solo di prospettive della disperazione. Piuttosto è una questione di fede, di illusioni e di possibilità, e gli avvenimenti quotidiani della vita dell'autore svolgono obbligatoriamente un ruolo nel modo in cui viene condotta la riflessione. Per me, la soppressione dello Studio Társulás e stata decisiva. Benché ci avessero detto che gli altri Studi ci avrebbero accolto a braccia aperte, abbiamo purtroppo constatato che la realtà era ben diversa. Ho dovuto cercare una soluzione al di fuori della professione, e sono andato a mendicare... Questo è durato un anno». (Béla Tarr)

 

Ciò che stiamo per annunciarvi è una specie di scoperta dell'acqua calda: gli ungheresi hanno un nuovo, grande regista, un cineasta su cui si può scommettere per gli anni da qui al Duemila. Si chiama Béla Tarr. Ha 33 anni, cinque film alle spalle e molti altri – speriamo – davanti a sé.

Perché scopriamo l'acqua calda? Perché, appunto, i film precedenti a Perdizione (vale a dire Nido familiare, L'outsider, Rapporti prefabbricati e Almanacco d'autunno) sono passati a vari festival, hanno anche vinto dei premi (a Locarno e a Mannheim) e i critici più attenti avevano già cominciato a far circolare il nome di questo giovanotto. Ma, personalmente, Perdizione è stato il nostro primo incontro con Tarr e lo choc non è stato indifferente. E' un film che ti si deposita dentro, delicato e inarrestabile come la pioggia di cui le sue inquadrature sono piene. Béla Tarr non è amato dai burocrati, né da molti dei colleghi più anziani, e non si tratta solo di gelosie. Innanzitutto, il giovane proviene da un'esperienza, quella dello studio Tárzulás (l'organismo produttivo più aperto e "sperimentale" della cinematografia ungherese), la cui fine (per motivi "economici") è stata molto trau­matica: uno dei registi dello studio, Gábor Body, si è suicidato, gli altri hanno trovato grandi difficoltà nel "riciclarsi" altrove. Perdizione è un anomalo caso di

"produzione indipendente", perché solo svuotandosi le tasche Tarr e i suoi collaboratori hanno potuto finire il film.

Altro, e non secondario motivo: Perdizione è completamente diverso da tutti gli altri film ungheresi del 1987. Non parla del '56. Non tenta un'analisi (critica, o satirica, o accomodante) dell' Unghe­ria di oggi. Non è fatto per i mercati esteri. In poche, insufficienti parole, Perdizione mette in scena un tradimento. Un uomo che perseguita una donna sposata, e che di fronte al suo rifiuto denuncia lei e il marito alla polizia. Ma, credeteci, è un riassunto che comunica l'uno per mille della ricchezza del film.

Potremmo provare a lasciare che sia Tarr stesso a spiegarci il perché: «Non bisognerebbe mai raccontare le trame dei film. Non solo perché non sono importanti, ma perché sono menzognere. Ci ingannano. Ci fanno credere che anche nella vita esista una "trama". Nei miei film io cerco di evitare la storia, mettendo invece in scena delle circostanze, degli umori, degli stati d'animo. E cerco di dimostrare come gli interessi quotidiani determinano i nostri sentimenti, ci calpestano, ci travolgono nel loro fango».

Tutto ciò, forse, non è ancora abbastanza. Diciamo allora questo: che in Perdizione tre esseri umani si inseguono, si cercano, credono di desiderarsi, finiscono per distruggersi; che piove sempre; che paesaggi e ambienti sono squallidi, ma di quello squallore affascinante che hanno gli esterni newyorkesi di Scorsese, o le paludi russe di Tarkovskij; e che le sequenze sono percorse da cani, una moltitudine di cani, uno dei quali "aspetta" il protagonista alla fine, quando il tradimento è stato consumato e a chi ha venduto la propria umanità nel nome dell'egoismo non resta altro che abbaiare, e avvoltolarsi nel fango.

«Il film — dice Tarr — nasce da un paesaggio. Un paesaggio artificiale, ricreato in tanti angoli sparsi per mezza Ungheria. E i protagonisti sono, appun­to, il paesaggio, la pioggia, i cani. I cani non sono un simbolo. E' molto semplice. Di cosa parla il film? Di un uomo solitario, che ha bisogno di que­sta donna solo per soddisfare, diciamo cosi, delle necessità biologiche. E quando lei lo caccia, lui la denuncia, accettando quelle stesse regole sociali che sembrava aver rifiutato. Quando alla fine trova il cane, trova se stesso, e rimarranno compagni per sempre».

Le regole, le leggi, la ribellione. Un tema che Tarr sente con dolore, e intransigenza. Ha parole dure nei confronti di un certo cinema ungherese che sembra fare "laicamente" i conti con il passato: «Siamo stati ingannati tante volte. E se comincio a gridare contro questi inganni, divento simile a coloro che ci hanno ingannati. Così, almeno, la penso. Bisogna guardare altrove. Bisogna concepire l'uomo come un'entità cosmica. Io non rifiuto una determinata società, socialista o capitalista: rifiuto tutti i sistemi sociali in cui la dignità umana può essere cancellata dal denaro. Tutti, qui come in Occidente, viviamo condizionati dalle stesse strutture. Mi sento più vicino agli orientali, alla loro capacità di contemplarsi, di non guardare fuori di sé».

Nulla di strano che fra gli artisti capaci di trova­re almeno nella loro opera quella dignità ormai scomparsa dalla vita, Tarr citi (accanto a tre europei, Fassbinder, Jancsó e Tarkovskij) due giappo­nesi. Kurosawa («ma solo i vecchi film», non ne dubitavamo) e naturalmente il più spirituale dei ci­neasti, Yasujiro Ozu. Anni fa, in un celebre saggio, il regista americano Paul Schrader individuò in Ozu, Dreyer e Bresson i registi "della trascenden­za". Se si riscrivesse oggi quel saggio, si dovrebbe trovarci un posto per Béla Tarr. Anche per non lasciarlo solo. Perché –tanto per chiudere con una sua frase – «secondo la Bibbia coloro che rimangono soli, impossibilitati ad amare e ad essere amati, sono i veri dannati». (Alberto Crespi, «L'Unità», 17 febbraio 1988)

 

«La mattina di Pasqua del 1986 suona il telefono; all'altro capo del filo c'è una voce sconosciuta e mi dice che da due giorni sta leggendo il mio romanzo intitolato Sátántangó e che secondo lui se ne potrebbe fare un film. Mi chiede l'autorizzazione di farlo. Io gli rispondo di sì e gli propongo di incontrarci. Ci siamo visti in un ristorante di Budapest, dove abbiamo anche parlato, ma soprattutto ci prendevamo le misure a vicenda. Visto che ci divertivamo anche, ci mettemmo d'accordo che lui, Béla Tarr, avrebbe realizzato un film da Sátántangó. Dopo alcuni mesi di lavoro in comune, era nata la sceneggiatura. Poi, quando diventa chiaro che di quel romanzo non si poteva fare un film in Ungheria, almeno per il momento, Béla riprese una sua vecchia idea, che aveva messo da parte a causa di Sátántángó. Allora, vincendo la mia naturale resistenza, ho deciso di partecipare alla scrittura del film, che si intitolava Kárhozat. Apparve subito chiaro che io e Béla abbiamo parecchi punti in comune nel modo di pensare. Questo vuol dire – par­lando in modo metaforico – che tutti e due abbiamo la nostra cinepresa piazzata nello stesso punto della realtà. Questo punto di vista, naturalmente, non a l'unico possibile. Ma noi stiamo guardando le cose da quel punto. Nel corso delle nostre conversazioni apparve chiaro che parlando del "mondo", pensavamo sempre all'Ungheria del 1987-88. Ma non volevamo che nel film risuonassero frasi vuote, che esprimessero solo giudizi di valore, dall'esterno. Indipendentemente l'uno dall'altro, abbiamo sentito l'esigenza di avvicinarci alle cose più primitive, più quotidiane, rappresentandole nella loro immediatezza. Non si trattava di esprimere in modo aggressivo un punto di vista personale; volevamo che il nostro no alle condizioni dell'Ungheria del 1987 si accompagnasse ad un sentimento di profondissima compassione. Ma questa compassione a sua volta non doveva diventare uno sguardo autonomo gettato sulle cose, perché non si trattava di contemplare il mondo dall'esterno con atteggiamento pietoso, ma piuttosto era in gioco la nostra pietà, quella degli autori e degli spettatori del film, che viviamo qui e partecipiamo ad un altro film, in senso più generale.

La nostra intenzione è stata quella di costruire, come protagonista del film, un personaggio che sa "tutto" del mondo e non si fa alcuna illusione. II nostro eroe, Karrer, sa esattamente quello che si aspetta dalla vita. Contempla il mondo attraverso la disperazione della sua vita. Nonostante ciò, si butta in una storia nuova, mentre sa bene e meglio degli altri che ne può uscire soltanto come perdente. Però dentro di sé ha qualcosa che è più forte di come lui vede il mondo. Questa "forza più grande" che è in lui lo tira verso l'altra protagonista del film, la cantante, che diventa l'oggetto non del tutto degno per i suoi sentimenti e desideri. II problema non è che questa donna potrebbe significare per lui qualcosa di stabile, visto che Karrer non si fa alcuna illusione della propria vita. Insomma, Karrer non si aspetta nulla da questo amore, per­ché altrimenti significherebbe per lui che il suo giudizio negativo sul mondo era sbagliato e che comunque il suo modo di vedere non derivava necessariamente dalla colpa del mondo, ma poteva derivare dalla sua stessa colpa. Per Karrer questo amore non è altro che l'estrema necessità umana, l'esprimersi, nella sua eccessiva solitudine, del desiderio biologico per l'affetto umano. L'amore è l'unica cosa che la vita non può uccidere in lui.

Gli altri personaggi del film accettano il mondo come è, anche se lo conoscono bene; non lo giudicano, tentano di conviverci accettandone le regole cercando di occupare le migliori posizioni possibili. II bisogno di Karrer non è qualcosa di metafisico, ma una necessità umana primordiale, che possiede anche un aspetto metafisico. Karrer è l'unico personaggio del film che guarda oltre quel mondo. Ed è l'unico, per questo, ad essere punito dal destino. Direi che Karrer è "percosso dalla sorte", perché ha solo coscienza del fatto che in qualche luogo, oltre l'infinito moto circolare dei carrelli, c'e una qualche continuazione, ma non riesce a vederla. Noi volevamo suscitare anche negli spettatori lo stesso sentimento di Karrer, almeno in quelli che non escono subito dalla sala, quando, insieme a Karrer, devono guardare per lunghi minuti il movimento infinito dei carrelli.

Non posso dire di più, senza rischiare l'autenticità. Perché la questione non è più quale sia la posta in gioco nella vita di Karrer, o se in fondo ne abbiano le storie che si svolgono attorno a noi. Karrer guarda i carrelli per decidere se abbia un senso ciò a cui lui ha già risposto di no. La sua disperazione estrema, il bisogno che urge in lui lo spingono a guardare i carrelli, per trovare qualcosa, se non altrove, in questa infinita ripetitività che trascende il mondo circostante. E' tanto disperato che è costretto a guardare oltre la sporcizia del mondo. Come Adamo in «La tragedia dell'uomo» di Imre Madách, arriva disperatissimo a porsi la domanda: « A cosa serve tutto questo?». E la risposta è: «...!»

Non volevamo definire in maniera precisa il luogo e il tempo nel film, anche se è evidente che la storia si svolge in Ungheria durante gli ultimi trent'anni, perché la rappresentazione del mondo di Karrer li rendeva superflui. Avremmo potuto realizzare un film in cui l'oste fosse un ufficiale della polizia segreta, Karrer un conte che soffre, la cantante un'impiegata ministeriale e suo marito un sergente. In questo caso il film poteva raccontare come questa gente provasse disgusto per i propri ruoli sociali. Noi invece volevamo mostrarli al di fuori di un ruolo particolare, nella loro essenza umana. A mio parere non esiste una sostanziale differenza tra il mondo di oggi e quello degli ultimi centocinquanta anni, per cui si può immaginare lo stesso mondo presente nel film ad esempio nel 1887. Non ci interessavano le motivazioni politiche, ma un certo tipo di individui e di situazioni umane, che si incontrano spesso in questa parte dell'Europa. Non penso di vivere in una zona più infernale delle altre parti della terra, ma il mondo qui mi appare in questo modo, è questo il punto di vista della cinepresa di cui parlavo prima. E non sto parlando di tradizioni culturali o storiche, ma di un punto geografico, da dove non riusciamo a vedere oltre, proprio perché noi facciamo parte di quel punto. Non seguiamo la tradizione che considera la storia ungherese fatta di una sequenza di tragedie: noi avremmo voluto descrivere una condizione umana universale, però da un'angolazione che si trova solo in questa parte del mondo. Più a nord o più a sud, sarebbe potuta diventare una commedia o qualcosa di ancora più triste. Insomma, noi rappresentiamo il mondo in modo tale che ad esso si risponda con un no cate­gorico, non perché non conosciamo gli aspetti più sereni della vita, le gioie e la felicità che l'uomo ogni tanto può provare. Se si vuole, nel nostro film non si vede il cielo solo perché l'inquadratura non ha la forma quadrata, ma rettangolare e in questo caso abbiamo scelto di guardare a terra». (László Krasznahorkai)

 

«Quando Béla Tarr mi ha chiesto di collaborare a questo film come scenografo, mi disse che il film, accanto ai quattro personaggi, ne aveva un quinto: la visione, lo spettacolo. Il mondo visivo doveva avere un ruolo ancora più importante dell'azione. Infatti, nel corso del montaggio, l'azione è stata sempre più messa in ombra dagli elementi visivi e sonori. Per costruire l'atmosfera del film la cosa più importante era cercare i luoghi adatti. Siamo andati in tutte le città, in tutti i villaggi minerari del paese, in cerca degli ambienti industriali sui quali il tempo aveva lasciato l'impronta di una lenta ma evidente devastazione. Questi posti tanti anni fa erano stati progettati in vista di uno sviluppo dinamico e si avverte ancora che sono stati costruiti con la promessa di un futuro più ricco e più bello; ma ormai, con il loro stato di composizione, mostrano solo desolazione, la scomparsa definitiva delle illusioni di un tempo. Abbiamo trovato parecchi di questi ambienti nelle diverse parti del paese. I sogni dell'industrializzazione trionfale di alcuni decenni fa, che per un breve periodo sono sembrati realizzabili, oggi hanno prodotto solo miseria, luo­ghi dove la gente riesce a malapena a sopravvivere. Siamo stati in villaggi minerari dove ormai vivono solo pensionati, che vennero mandati in pen­sione a 40-50 anni, quando le miniere dovettero chiudere. Questi uomini oggi non fanno altro che stare nelle bettole dalla mattina alla sera. Siamo stati in posti dove i carrelli da molti anni trasportano polvere di carbone e ne fanno un'enorme montagna senza vita. Centinaia di persone lavorano lì, stanno costruendo quella montagna semplicemente per avere un lavoro.

Si vede che questi posti sono stati progettati, anche dal punto di vista architettonico, esclusivamente per un certo tipo di vita e che adesso sono del tutto incompatibili con un altro tipo di vita. Abbiamo visto persone che allevano polli e maiali nelle baracche dove sono accatastate lastre e lamiere di ogni genere, in fianco a palazzi fatiscenti, che, vedendoli, si a portati a pensare che la gente li abbia abbandonati da molti anni. Siamo stati in locali dove si trova soltanto birra imbottigliata e per bere la birra non ti danno il bicchiere e te la servono su tovaglie sudice, su tavoli senza una gamba. Probabilmente questi erano locali confortevoli, dove la gente ci andava e di cui la città andava fiera. Oggi sono come dei monumenti architettonici, con la porta in stile "barocco staliniano", con una colonnata di marmo artificiale, con degli stucchi sul soffitto e con un piccolo carrello elet­trico che si illumina sopra l'entrata, che va e viene senza fermarsi mai. Sulle pareti ci sono degli specchi fantastici e si vedono le tracce delle belle lampade a lumiera. Ma ormai se ne vedono solo le rovine. Sembra di trovarsi in una casa affidata a bambini pestiferi che, in attesa del ritorno dei genitori, hanno distrutto ogni cosa. E non sono gli ospiti di questi locali a distruggere tutto, ad eseguire una tale devastazione. Anche loro sono devastati, insieme a quel ristorante una volta splendente. Stanno seduti dentro, bevendo le loro birre, quelle dei minatori ormai vecchi e malati, che un tempo avevano ricevuto le loro onorificenze, quando il ristorante chiamato «Vagoncino d'oro» era considerato il posto migliore della città. Gli ambienti e le persone stanno andando in rovina insieme. In uno dei palazzi abbiamo visto delle cassette postali, con i nomi illeggibili, con i coperchi rotti e forzati, tutti, senza eccezione. Alla mia domanda di come si potevano mettere le lettere in quelle cassette, mi hanno risposto che lì non arrivavano più lettere e che comunque la gente non sapeva più leggere. Ci sembrava veramente di essere oltre la fine del mondo. Quello che più ci ha sorpreso è l'aver preso coscienza che la causa di quella generale rovina non è stata la pigrizia, ma ad essa si è arrivati dopo una vita di sudore e di duro lavoro. Ma in ogni caso non abbiamo cercato quei luoghi con l'intenzione di fare una radiografia dello stato di rovina di certe zone del paese. Il film non ha riferimenti concreti a tempi e luoghi. Si vedono solo due iscrizioni dalle quali si può dedurre che la storia si svolge in qualche parte dell'Ungheria. Volevamo costruire un quadro più universale della realtà, abbiamo consapevolmente cercato di evitare precisi riferimenti ambientali, che riguardassero le attuali condizioni socio-politiche del paese.

I luoghi sono reali, ma il film venne girato in più posti. In alcuni luoghi abbiamo preso solo un particolare di strada o un pezzo di muro. C'è ad esempio una casa la cui parte esterna si trova a Budapest, quella interna ad Ajka, mentre il negozio è vicino a Pécs. Anche i mobili li ho scelti con l'idea che portassero i segni delta loro bellezza di una volta. L'effetto generale degli oggetti doveva risultare da questo senso di bellezza distrutta. I mobili dovevano rispecchiare una vita mediamente normale, mediamente in rovina. Elementi importanti della scenografia sono stati la pioggia continua e l'umidità. Quasi in ogni sequenza sta piovendo, ovunque c'è fango e, dato che il film è in bianco e nero, le superfici bagnate fanno un effetto strano, producono un luccichio scuro, che ho cercato di conservare anche negli interni, spargendo sugli oggetti polvere di carbone». (Gyula Paver)

   
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