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Cartografie dell’affettività. A proposito dell’arte in Gilles Deleuze
Nel suo Spinoza. Filosofia pratica, G. Deleuze ritorna sui temi delle affezioni e degli affetti, che tanta parte hanno nello sviluppo della sua ricerca critica, indicando come l’affezione (affectio) sia modo della sostanza o dei suoi attributi, rimarcandone il carattere attivo, poiché si esplica nella natura di Dio come causa adeguata. Ciò vale ad un primo grado dell’analisi. Ad un secondo livello si deve considerare l’affezione come ciò che accade al modo, vale a dire come quella modificazione che deriva dalla relazione con altri modi, che producono appunto degli effetti. Mediante opportuni rimandi all’Etica spinoziana, il filosofo di Differenza e ripetizione rileva come le affezioni siano da intendere come delle “immagini o tracce corporee”, le cui idee implicano insieme la natura del corpo modificato e quella del corpo esteriore che determina la modificazione come effetto di trasformazione del corpo affetto. Le affezioni-immagini o idee (nel senso che la mente contempla/immagina i corpi nel loro rapporto presente) costituiscono – e questo è un terzo piano di analisi – uno stato determinato (constitutio) del corpo e della mente modificati dal corpo esteriore, che può risultare di minore o maggiore perfezione rispetto allo stato precedente all’affezione. Deleuze punta la sua attenzione proprio sulle transizioni, sui passaggi vissuti, sulle durate che si articolano dalle perfezioni minori a quelle maggiori e viceversa, in quanto le affezioni non sono separabili da tali durate, che le ricollegano agli stati precedenti o le spingono in avanti, verso lo stato successivo. Sono appunto le durate o variazioni dello stato di perfezione ad essere chiamate affetti o sentimenti (affectus). Balza così agli occhi una differenza ovvia tra l’affezione, che si predica direttamente dei corpi, e l’affetto, che si riconnette alla mente. Ma la differenza sostanziale da cogliere è un’altra, ed è quella tra l’affezione del corpo – con la sua idea che include la natura del corpo esterno – e l’affetto, che include, tanto per il corpo quanto per la mente, un aumento o un decremento della potenza d’agire: “L’affectio rinvia ad uno stato del corpo affetto e implica una presenza del corpo che determina l’affezione, mentre l’affectus rinvia al passaggio da uno stato all’altro, tenuto conto della variazione correlativa dei corpi affettanti. Vi è dunque una differenza di natura fra le affezioni-immagini o idee e gli affetti-sentimenti, benché gli affetti-sentimenti possano venir presentati come un tipo particolare di idee o di sentimenti”. Ciò è supportato da una nutrita serie di rinvii all’Etica: “’Per affetto intendo le affezioni del corpo, da cui la potenza di agire di quel corpo medesimo è aumentata o diminuita, aiutata o impedita…’ (III, def.3); ‘L’affetto, che vien detto passività dell’animo, è un’idea confusa con cui la mente afferma una forza di esistere del suo corpo… maggiore o minore di prima…’ (III, def. Gen. Degli affetti). Certamente, l’affetto presuppone un’immagine o idea, e ne deriva in quanto sua propria causa (II, assioma 3). Ma questo affetto non si riduce a un’idea, è di un’altra natura, essendo puramente transitivo, e non indicativo o rappresentativo, venendo sperimentato in una durata vissuta che include la differenza tra due stati. Qui Spinoza mostra bene che l’affetto non è una comparazione di idee e rifiuta così ogni interpretazione intellettualistica: ‘Quando parlo di una forza di esistere maggiore o minore di prima, non intendo che la mente paragona lo stato presente del corpo con quello passato, ma che l’idea, che costituisce la forma dell’affetto, afferma del corpo qualcosa che implica effettivamente più o meno realtà che non prima’ (III, def. gen.)” (1).
Ciò che mi interessa ora segnalare all’interno di questo ampio “passo”, come mia iniziale presa di posizione teorica, è la sottolineatura del carattere transitivo e “non indicativo o rappresentativo” dell’affetto, che è quello che sta alla base della costruzione teorica deleuziana, anche e soprattutto nel momento – nei momenti… - in cui si espone all’investimento letterario, pittorico, cinematografico. Prima di riprendere e articolare tale osservazione, è opportuno però ritornare allo Spinoza di Deleuze, parafrasando le pagine che vanno in direzione di una corretta concettualizzazione della differenza tra passione e azione. Ogni modo si caratterizza per un certo potere di essere affetto e tale potere viene incrementato laddove si concretizza una relazione con un altro modo che si compone con il primo, qualificandosi come “buono”. Se l’altro modo decompone invece il primo, allora lo si può definire come “cattivo”. L’incontro “buono” consente il passaggio ad una perfezione maggiore, mentre nell’altro caso si ha una transizione verso una perfezione minore. La potenza d’agire o forza di esistere aumenta o diminuisce in quanto la potenza dell’altro modo si aggiunge o si presenta come ostacolo e blocco. L’affetto della gioia è appunto quello dell’accrescimento della potenza d’agire, mentre quello della tristezza è dato dalla diminuzione, dal conseguimento di una perfezione minore. In ogni caso, l’affetto-sentimento è sempre da cogliersi in relazione con l’affezione-immagine o idea a cui è connesso (cioè l’idea del corpo che concorda o meno con il nostro) e “le diverse serie di affezioni e di affetti soddisfano costantemente, secondo condizioni variabili, il potere di essere affetti” (SFP, p.61). C’è in definitiva una derivazione degli affetti-sentimenti dagli incontri con altri modi, il che significa che essi “si esplicano attraverso la natura del corpo che determina affezioni e per mezzo dell’idea, necessariamente inadeguata di questo corpo, immagine confusa implicata nel nostro stato” (SFP, p.62). Anche la gioia è quindi un affetto-passione, in quanto l’accrescimento della potenza di agire non raggiunge quel livello che consente all’uomo di percepire adeguatamente se stesso e il suo agire complessivo, di comprendersi come causa adeguata. Si può anche dire che si rimane separati da tale potenza, fino a quando non si riesce formalmente a farla propria – e allora vale la distinzione tra le passioni e le azioni, che si affianca a quella tra le passioni tristi e le passioni gioiose: “Da una idea in quanto idea di affectio derivano sempre degli affetti. Ma, se l’idea è adeguata invece di essere un’immagine confusa, se essa esprime direttamente l’essenza del corpo affettante invece di includerla indirettamente nel nostro stato, se essa è l’idea di una affectio interna o di una auto-affezione che segna la concordia interiore della nostra essenza, delle altre essenze e dell’essenza di Dio (terzo genere di conoscenza), allora gli affetti che ne derivano sono essi stessi delle azioni (III, 1). Questi affetti o sentimenti attivi non solo non possono essere che gioie e amori (III, 58 e 59), ma gioie e amori assai speciali, poiché non si definiscono più secondo l’aumento della nostra perfezione o potenza di agire, ma per il pieno possesso formale di questa potenza o perfezione. A queste gioie attive si deve riservare il nome di beatitudini: esse sembrano conquistare la durata ed estendersi in essa come le gioie passive, ma, di fatto, sono eterne e non si esplicano più nella durata; non implicano transizioni e passaggi, ma si esprimono completamente a vicenda su un modo di eternità, insieme alle idee adeguate da cui procedono (V, 31-33)” (SFP, p.62).
Sul carattere “transitivo” dell’affetto, Deleuze non smette di interrogarsi, di cercarne le espressioni in letteratura, in pittura, nel cinema. Per quanto riguarda il cinema, vorrei ricordare una ricca pagina di Immagine-movimento, nella quale si propone una lettura dell’espressionismo che non punta semplicemente sulla rilevazione della “meccanica della quantità di movimento nel solido e nel fluido, ma sul fatto che quella avanguardia artistica “invoca” una “oscura vita paludosa in cui tutte le cose affondano, sia lacerate dalle ombre, sia sommerse nelle foschie”. Anche in tale prospettiva vale un’attenzione costante – tipica dello sguardo deleuziano – alla “germinalità pre-organica”, a quelle “intensità” che dis-identificano ciò che viene figurato (come nel caso dell’opera pittorica di F. Bacon) e che consentono di mettere in piedi delle vere e proprie imprese di salute. Ritornando allo specifico espressionista, è effettivamente la “vita non-organica delle cose”, quella “vita terribile che ignora il senno e i limiti dell’organismo”, a porsi come il suo “primo principio”, “valido per l’intera Natura, cioè per lo spirito incosciente perduto nelle tenebre, luce divenuta opaca, lumen opacatum. Le sostanze naturali e i prodotti artificiali, i candelabri e gli alberi, la turbina e il sole, non hanno più nessuna differenza da questo punto di vista. Un muro che vive è qualcosa di spaventoso; ma altrettanto lo sono gli utensili, i mobili, la case con i loro tetti i quali tutti pendono, si restringono, spiano o inghiottono. Ciò che si oppone all’organico in tutti questi casi, non è il meccanico, è il vitale come potente germinalità preorganica, in comune all’animato e all’inamimato, a una materia che si erge fino alla vita e a una vita che si spande in tutta la materia” (2).
Il percorso dell’espressionismo è caratterizzato dalla rivendicazione “per sé” di una “pura cinetica”, di un “movimento violento”, che travolge il “contorno organico”, le “determinazioni meccaniche” dell’“orizzontale” e della “verticale”, subordinando all’intensità del disegno l’apparente solidità dell’estensivo. Richiamando le tesi di W. Worringer (più i Problemi formali del gotico che Astrazione e empatia), nel momento in cui permettono di riflettere sull’opposizione dello “slancio vitale” alla “rappresentazione organica”, apprezzando il valore della linea “gotica o settentrionale”, Deleuze sottolinea come quest’ultima si presenti come una “linea spezzata che non forma nessun contorno in cui si potrebbero distinguere la forma e lo sfondo, ma che attraversa le cose zigzagando, trascinandole talvolta in un senza-sfondo, in cui si perde essa stessa, facendole talvolta volteggiare in un senza-forma in cui essa stessa si rigira in ‘disordinata convulsione’. Gli automi, i robot e i burattini non sono più dunque meccanismi che fanno valere o che maggiorano una quantità di movimento, ma sonnambuli, zombie o golem che esprimono l’intensità di tale vita non-organica” (3).
Al di là però di questo rinvio all’espressionismo, alla rilevazione – per via artistica, in senso avanguardistico – di una intensificazione “infinita”, che spezza “i propri legami sensibili con il materiale, con l’organico e con l’umano” (per staccarsi da tutto ciò che è passato, per “scoprire così la Forma spirituale astratta dell’avvenire”), a me interessa particolarmente prestare attenzione ad alcune pagine di Critica e clinica, l’ultima opera pubblicata da Deleuze, nel 1993. Già nelle due pagine dedicate a L. Carroll (dopo la presenza costante dell’autore di Alice nel paese delle meraviglie riscontrabile nella Logica del senso, 1969), si ritorna sul motivo del non-senso, riferendolo alla profondità (anche se non manca in superficie), una volta che quest’ultima viene considerata come “il regno dell’azione e della passione dei corpi”, in cui “cose e parole si disperdono in tutti i sensi” e si ritrovano combinate in “blocchi indivisibili”: se è vero che Alice “conquista progressivamente la superficie”, altrettanto fondamento ha il fatto che comunque “il mondo del profondo brontola ancora sotto la superficie e minaccia di farla scoppiare: anche esposti, dispiegati, i mostri ci assillano” (4). Si potrebbe ricordare qui pure il rapporto tra la “molteplicità biologica” e la “vitalità” in Differenza e ripetizione (1968) e le osservazioni sul “mostro” nella “conclusione” di quest’ultimo testo, là dove si riflette sul fondamento e sul meccanismo della determinazione. Anche a questo proposito, c’è una pagina importante che mi pare opportuno riportare: “Il fatto è che fondare è determinare l’indeterminato. Ma l’operazione non è semplice. Quando si esercita, ‘la’ determinazione non si limita a dare una forma, a formare materie nella condizione delle categorie. Qualcosa dal fondo risale alla superficie, vi risale sena prender forma, insinuandosi anzi tra le forme: esistenza autonoma senza volto, base senza forma. Il fondo nella misura in cui si trova ora alla superficie, è detto profondo, senza-fondo. Viceversa, le forme si decompongono quando si riflettono in esso, ogni modellato si disfa, tutti i volti muoiono, e sola sussiste la linea astratta come determinazione assolutamente adeguata all’indeterminato, come lampo uguale alla notte, acido uguale alla base, distinzione adeguata all’oscurità intera: il mostro. (Una determinazione che non si oppone all’indeterminato, e non lo limita)”. E ancora, sempre nella stessa pagina: “Occorre che il pensiero, come determinazione pura, come linea astratta, affronti il senza fondo che è l’indeterminato. L’indeterminato, il senza fondo, è di fatto l’animalità propria del pensiero, la genialità del pensiero: non questa o quella forma animale, ma la stupidità. (…) La stupidità (non l’errore) costituisce la più grande impotenza del pensiero, ma anche la fonte del suo più alto potere in ciò che lo costringe a pensare. Questa è la prodigiosa avventura di Bouvard e Pécuchet, o il gioco del nonsenso e del senso” (5).
In Differenza e ripetizione Deleuze ragiona sul pensiero e sulla differenza, intesa come ciò che fa funzionare il pensiero stesso (“cioè l’intera macchina dell’indeterminato e della determinazione”), sulla base, tra l’altro, di un richiamo ad una pratica “rivoluzionaria” in pittura che consiste nel passaggio dalla rappresentazione all’arte astratta. Sottolineo qui come dopo poco più di un decennio dalla pubblicazione di Differenza e ripetizione s’imponga, con ancora più radicalità, il confronto con il passaggio dalla rappresentazione alla presentazione pittorica, sotto forma di figura deformata/mostrificata (vedi ancora lo studio su Bacon), quale mezzo di rilevazione della potenza del “profondo”. Appunto Carroll è colui che meglio mette in scena il profondo come regno del combattimento, di una “battaglia orribile”, nella quale tutto è non-senso: “(…) cose che scoppiano e ci fanno scoppiare, scatole troppo piccole per il loro contenuto, cibi tossici o velenosi, budella che si allungano, mostri che ci ghermiscono. Un fratellino si serve del proprio fratellino come esca. I corpi si mescolano, tutto si mescola in una specie di cannibalismo che riunisce alimento ed escremento. Persino le parole si mangiano” (6). E’ proprio questo “il regno dell’azione e della passione dei corpi”, già richiamato in precedenza, che viene cartografato in Quel che dicono i bambini, in cui il profondo viene svincolato dalla presa dell’inconscio, in senso psicoanalitico. Deleuze osserva come il bambino dica sempre cosa fa o tenta di fare, cioè “esplorare ambienti, attraverso tragitti dinamici e redigerne la mappa”, in quanto le mappe dei percorsi/tragitti “sono essenziali all’attività psichica”. Freud è il primo a essere convinto, come si vede bene nel “Caso clinico del piccolo Hans”, dell’importanza delle mappe, “essenziali all’attività psichica”, ma Deleuze gli contesta un modo di considerare la mappa che riconduce tutto al padre-madre: “E’ come se i genitori avessero dei posti o delle funzioni primarie, indipendenti dagli ambienti. Ma un ambiente è fatto di qualità, sostanze, potenze ed eventi: per esempio la strada e i suoi materiali, come il lastricato, i suoi rumori, come le grida dei venditori, i suoi animali, come i cavalli da tiro, i suoi drammi (un cavallo scivola, un cavallo cade, un cavallo viene picchiato…). Il tragitto non si confonde con la soggettività di quelli che percorrono un ambiente, ma con la soggettività dell’ambiente stesso in quanto si riflette in coloro che lo percorrono. La mappa esprime l’identità tra il percorso e il percorso che è stato fatto. Si confonde con il proprio oggetto, quando l’oggetto stesso è in movimento. (…) Ma i genitori stessi sono un ambiente che il bambino percorre, di cui percorre le qualità e le potenze e di cui redige la mappa. Essi assumono una forma personale e parentale solo come rappresentanti di un ambiente in un altro ambiente. Ma è sbagliato pensare che il bambino sia in un primo tempo limitato ai suoi genitori e acceda a degli ambienti solo dopo, e per estensione, per derivazione. Il padre e la madre non sono le coordinate di tutto ciò che l’inconscio investe. Non c’è momento in cui il bambino non sia già immerso in un ambiente attuale che egli percorre, in cui i genitori in quanto persone svolgano solo il ruolo di coloro che aprono o chiudono delle porte, sorvegliano delle soglie, collegano o scollegano delle zone. I genitori sono sempre in posizione in un mondo che non deriva da loro” (7).
E’ l’attività cartografica del bambino a rivelare una molteplicità di paesaggi, transiti, visioni, fantasie: “La libido ha la peculiarità di bazzicare la storia e la geografia, di organizzare delle formazioni di mondi e delle costellazioni di universi, di far derivare i continenti, di popolarli di razze, tribù e nazioni. Quale essere amato non racchiude paesaggi, continenti e popolazioni, più o meno conosciuti, più o meno immaginari?” (QDB, p.86). L’attività cartografica del bambino (nel testo si rinvia anche al piccolo Richard, analizzato da M. Klein) non invita semplicemente a meglio determinare gli ambienti dell’inconscio, ma ci fornisce, della libido, un’immagine che non la riconduce puramente alla sua potenza di metamorfosi, bensì indica la sua capacità di delineare “traiettorie storico-mondiali”. Rilevante è, a tale proposito, la messa in evidenza non tanto della caratterizzazione metamorfica della libido, bensì della sua articolazione secondo “traiettorie storico-mondiali” o “viaggi” che combinano percorsi reali e immaginari, nel momento in cui l’immaginario si presenta sotto veste di immagine “virtuale”, affiancata all’oggetto reale: l’oggetto “reale” sprigiona la “propria immagine virtuale”, la quale, da parte sua: come “paesaggio immaginario”, “si addentra nel reale”. Deleuze considera questi “circuiti” di inseguimento e scambio tra l’immaginario e il reale come una “visione”, un “cristallo di inconscio” in cui si colgono le traiettorie libidinali. Continuando con il confronto con la psicoanalisi, vale soprattutto la distinzione tra la concezione cartografica e quella “archeologica”, che contraddistingue la psicoanalisi allorquando questa connette l’inconscio con la memoria, presentando così propria una concezione “memoriale, commemorativa o monumentale”, riferita a persone e oggetti, non ad ambienti, che sono individuati soltanto per la loro capacità di identificazione/conservazione di ciò che contengono. La concezione “archeologica” rinvia a degli “strati”, da attraversare “sprofondando” dall’alto verso il basso, nella ricerca di un’origine, mentre quella cartografica segue le ricomposizioni delle “carte”, nel loro spostarsi che significa anche una sovrapposizione, sia pure parziale, da valutare con attenzione: “Ogni carta è una ridistribuzione di vicoli ciechi e di varchi, di soglie e di steccati, che va necessariamente dal basso verso l’alto. Non è solo un’inversione di senso, ma una differenza di natura: l’inconscio non ha più a che fare con persone o oggetti, ma con tragitti e divenire; non è più un inconscio di commemorazione, ma di mobilitazione, da cui gli oggetti prendono il volo piuttosto che restare sepolti nella terra” (QDB, p.88).
Deleuze insiste sull’opportunità di considerare le carte non soltanto in estensione, “in rapporto a uno spazio costituito da tragitti”, ma anche nella loro qualificazione intensiva: ci sono appunto delle carte di intensità, di densità, che concernono ciò che sottende i tragitti. Il richiamo esemplificativo è ancora al piccolo Hans, che redige liste di affetti che costituiscono delle mappe di intensità. La carta dei movimenti e dei tragitti non è afferrabile, come si è visto, inquadrandola come una derivazione o estensione del rapporto padre-madre: anche la carta delle intensità o delle forze non è comprensibile facendola semplicemente derivare dal corpo, come estensione o supplemento di una immagine preliminare. Lo spinozismo di Deleuze riaffiora nella qualificazione del valore della carta d’intensità come distribuzione degli affetti, che costituiscono l’immagine del corpo, quell’immagine che si sa ormai essere sempre modificabile “a misura delle costellazioni affettive che la determinano”. Le forze, le intensità, il loro rapporto con l’inconscio, è ciò che sfugge alla mappatura archeologica della psicoanalisi, che non riesce a cogliere come le immagini non siano soltanto tragitto, ma anche divenire: “Il divenire è ciò che sottende il tragitto, come le forze intensive sottendono le forze motrici. (…) E’ il divenire che trasforma il più piccolo tragitto, o anche un’immobilità sur place, in un viaggio; ed è il tragitto che trasforma l’immaginario in un divenire. Le due carte, quella dei tragitti e quella degli affetti, rimandano l’una all’altra” (QDB, pp.89-90). Nel divenire si esprime la potenza di un impersonale che si determina come singolarità (non una generalità) al livello più alto (“per esempio, non si fa il cavallo, così come non si imita il tale cavallo, ma si diventa un cavallo, raggiungendo una zona di vicinanza in cui non si può più distinguere da ciò che si diviene”). Detto altrimenti: ciò che la libido investe si presenta sempre con un articolo indeterminativo o viene presentato dall’articolo indeterminativo (un animale, un corpo, un “personaggio”) e questo indeterminativo non manca affatto di determinazione. E’ a questo punto del suo testo che Deleuze riconosce in ciò che dicono i bambini (“che non conserva più nulla di personale e razionale”) quello che viene detto dall’arte, dall’impresa artistica come vera e propria impresa di salute. Anche l’arte è fatta di tragitti e divenire, affezioni e affetti, e “quindi compone delle mappe, estensive e intensive”, presentando allora delle traiettorie. Il rinvio è alla mappa nell’Isola del tesoro di R. L. Stevenson, ma “questo non significa che un ambiente determini ineluttabilmente l’esistenza dei personaggi, ma piuttosto che questi si definiscono attraverso dei tragitti, compiuti nella realtà o nell’immaginazione, senza i quali non diverrebbero. (…) E siccome i tragitti non sono più reali di quanto i percorsi siano immaginari, c’è nella loro riunificazione qualcosa di unico che spetta solo all’arte. L’arte si definisce allora come un processo impersonale in cui l’opera si compone un po’ come un cairn, con le pietre apportate da diversi viaggiatori o divenienti (piuttosto che rivenienti, o fantasmi), che provengono o no da uno stesso autore” (QDB, pp.90-91).
All’“arte-archeologia”, che esprime un protagonismo del processo personale della memoria (e dell’ideale collettivo della commemorazione) “che sprofonda nei millenni per raggiungere l’immemoriale”, Deleuze contrappone un’“arte-cartografia”, poggiata sulle “cose d’oblio e i luoghi di passaggio”. L’arte cartografica è un’arte degli incontri, delle vie, dei corpi attraversati e dis-organizzati, che “non ha altra memoria se non quella del materiale”: il suo scopo, se così si può dire, è quello di rendere visibili gli spostamenti, di affiancare ai percorsi reali quei percorsi virtuali che restituiscono, dell’opera d’arte, il carattere molteplice dei suoi tracciati, delle sue traiettorie. Oltre alla pittura, l’esemplificazione di Deleuze coinvolge la scultura (soprattutto la sperimentazione di Carmen Perrin), capace di far prendere posizione diverse su itinerari esterni, a partire però dai percorsi interni, dai suoi rapporti costitutivi; “Si fa il giro della scultura e i suoi assi visivi portano ad afferrare il corpo ora in tutta la sua lunghezza, ora in uno scorcio sorprendente, ora secondo due o più direzioni divergenti: la posizione nello spazio circostante dipende strettamente da questi tragitti interiori. (…) Una mappa di virtualità, delineata dall’arte, si sovrappone alla mappa reale e trasforma i suoi percorsi” (QDB, p.92). E’ questa pratica di trasformazione che ci restituisce uno specifico “politico” dell’arte, nell’apprezzamento delle intensità, anche sotto veste di “cammini interiori”, nell’accoglimento del valore criticamente affermativo degli affetti e delle affezioni, in definitiva dei divenire, del desiderio e della potenza di vita: “Non è solo la scultura, ma ogni opera d’arte, per esempio l’opera musicale, a implicare questi cammini o camminamenti interiori: la scelta dell’una o dell’altra strada può determinare volta per volta una posizione variabile dell’opera nello spazio. Ogni opera comporta una pluralità di tragitti, leggibili e coesistenti su una carta, e cambia senso secondo i tragitti che sono presi in considerazione. Questi tragitti interiorizzati non sono separabili dai divenire. Tragitti e divenire, l’arte li rende presenti gli uni negli altri; rende sensibile la loro presenza reciproca, e così si definisce, invocando Dioniso come il dio dei luoghi di passaggio e delle cose d’oblio” (Idem).
Tragitti e divenire, dunque: affezioni, affetti-sentimenti, conatus/cupiditas, secondo la singolare antropologia del desiderio contenuta nell’Etica spinoziana e riformulata dal filosofo di Marcel Proust e i segni.
note
- G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, tr. e cura di M. Senaldi, Guerini & Associati, Milano, 1991, pp.60-61. D’ora in poi i passi tratti da questo libro saranno direttamente indicati nel mio testo con la sigla SFP e la segnalazione della pagina.
- G. Deleuze, L’immagine-movimento, tr. di J.-P. Manganaro, Ubulibri, Milano, 1984, p.68.
- Ivi, pp.68-69.
- G. Deleuze, Lewis Carroll, in G. D., Critica e clinica, tr. di A. Panaro, Cortina, Milano, 1996, pp.37-38.
- G. Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. di G. Guglielmi, revisione di G. Antonello e A. M. Morazzoni, Cortina, Milano, 1997, pp.352-353.
- G. Deleuze, Lewis Carroll, cit., p.37.
- G. Deleuze, Quel che dicono i bambini, in G. D., Critica e clinica, cit., pp.85-86. D’ora in poi i passi tratti da questo saggio di Deleuze saranno direttamente indicati nel mio contributo con la sigla QDB e la segnalazione della pagina.
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