pensata
in termini di rappresentazione e modello anatomico come punto di vista
dell’artista Fine dell’opera. Chiediti innanzitutto
questo. Anche se sei artista, ti interessa veramente adottare l’orizzonte poetico come limite delle
tue ipotesi: un punto di vista interno
all’opera? Fine, allora. Nel senso che tu
usualmente le attribuisci, secondo la personale coerenza dei tuoi investimenti
e aspettative, di termine o di Finale, come momento psicologicamente
convergente e non indifferente dell’intera prassi creativa, essa non
potrà essere ritenuta, in un esercizio posteriore, ma necessario, di
distacco, che un elemento del gioco delle variabili che sono coinvolto
in quella stessa creazione particolare. Direttamente collegato e non diverso
logicamente, nell’ipotesi della vigenza di una struttura narrativa o
drammaturgica (come avviene nel teatro), a quello che si chiama Inizio. Ma che cosa fai, in più con la Fine? Promulghi un decreto, differente
nelle sue condizioni da oggetto ad oggetto, ma equivalente nella sua
funzione. Esso segna da ogni parte i margini di quell’intervallo percettivo-rappresentativo
dentro cui sta l’immagine pura dell’opera stessa e in cui hanno libero
accesso altre rappresentazioni destinate a legarsi indissolubilmente
con il fenomeno che in un ambito dato costituisce il fulcro dell’esperienza.
Fine dell’opera non equivale ad opera finita; essa ha un valore produttivo spostato dentro la ricezione. Essa appare quindi come un campo di pertinenza tanto del fruitore
quanto del creatore. Fine dell’opera va intesa, in
generale come una rappresentazione.
Se può esistere per l’artista che vuole occuparsi della Fine un
compito (responsabilità ulteriore rispetto all’esposizione dell’opera
e successivo al concludersi della sua presentazione o rappresentazione
fisica) alternativo tanto all’operare moltiplicante dell’interpretazione,
tanto al lavoro della storiografia e della critica delle arti, esso
dovrà stare, comunque, dentro
la rappresentazione, e non potrà d’altronde esaurirsi nel fornire
una immagine autentica (necessariamente contraddittoria, in quanto non
si capirebbe né perché non dovrebbe prendere il posto dell’opera di
cui è immagine, né quale aura conterrebbe per imporsi alle altre possibili
immagini) dell’opera stessa. Non, quindi, fare immagini dell’opera ma
piuttosto fornire modelli di riferimento che indichino una prassi rappresentativa
possibile a partire dall’atteggiamento del soggetto creatore rispetto
al proprio lavoro d’arte. Nell’introduzione alla propria
ANATOMIA UNIVERSA (pubblicata postuma nel 1823), l’anatomista italiano
Paolo Mascagni si dichiarava preoccupato di recuperare, visivamente,
l’armonia e la concordanza della completa apparenza dell’organismo sulla
base delle concezioni mediche dell’ENCYCLOPEDIE, che costantemente intendono
l’esercizio della dissezione come smontaggio del corpo per isolarne
e individuarne i singoli ingranaggi, avendo ben presente che il fine
ideale dell’operazione tende al rimontaggio di ciò che prima era stato
scomposto, per ricostruire concettualmente l’organismo originario, diverso
solo perché se ne sono conosciute le intime apparenze. E’ proprio quest’ultima frase
a darci la possibilità di identificare un analogo della condizione problematica
dell’artista all’atto di rappresentarsi la propria opera all’interno
dell’orizzonte disperso della Fine, e a considerarlo come possibile
modello pratico e figura risolutiva. L’anatomia, intesa come procedimento che non aggiunge nella al proprio oggetto,
ma che contemporaneamente lo rende diverso introducendo uno sdoppiamento
fittizio che si dà nella costante preoccupazione dell’unità (e dell’unicità)
dell’opera, può permettere all’artista di oggettivarla e di indagarla
attraverso un riflesso setto che deve la propria possibilità all’organicità
del codice originario e, per così dire, informa accidentalmente. |