Cominciamo col descrivere quello che lo spettatore
vede: il luogo è illuminato dall’oscurità; una nebbia esile, rarefatta, a
strati, permane, solidificandosi ad una altezza d’uomo.
Dalla tribuna coloro che occupano i gradoni più alti sovrappongono le linee
nebbiose allo strumento. Per coloro che sono posti nelle prime file lo spazio
sembra al contrario dividersi in due piani. Il proiettore puntato dall’alto, a
perpendicolo, segna
il panorama con una strettissima piramide la cui base coincide perfettamente
col quadrato dell’arpa. Quando parlo di “arpa” intendo
la struttura metallica che trattiene le corde di un pianoforte smembrato,
vorrei dire martoriato. Questa parola ritornerà più volte all’interno di questo
paragrafo. L’arpa, che nella sua posizione originaria occupa verticalmete il
corpo del pianoforte, qui è invece posta a terra leggermente sollevata nella
parte che dà sul fondo della scena. Cosicchè sia possibile scorgerne in modo
limpido i fasci di corde che la segnano. Un occhio attento potrebbe cogliere
tre tipi di corde: quelle preposte al suono grave sono arrotolate su se stesse,
robuste e di diametro pesante; danno la sensazione di potersi porre facilmente
in opposizione all’esecutore. Sono le corde delle ottave più basse, il cui tono
grave diviene pesante e fisicamente percepibile ogniqualvolta le si percuote con forza. Al contrario se sono sottoposte a
vibrazione leggera divengono come maggiolini che ritrovano la libertà nel volo.
Al centro vengono poi quelle medie, più snelle e leggere: è su queste che si concentra il massimo sforzo dell’esecutore. Tendono all’alto ma facilmente possono discendere sin quasi alle prime
qui descritte. Dell’ultima schiera - esse generano le frequenze più alte - ci
occuperemo più avanti.
La luce che illuminava la tribunetta si è era
spenta all’improvviso, o almeno a me parve così.
E rischiarato da una
debolissima luce appare un corpo. Appare nel senso che solo ora lo si può cogliere per quello che è: prima ammasso color
carne, inscurito da terrra nera, era posto sull’arpa come corpo morto, troncone
senza né braccia né gambe. La testa parzialmente nascosta dalla schiena ricurva
pareva mozzata.
Vengo trascinato in una sorta di fascinazione: il quadro non sembra dare alcuna
possibilità alla massa carnosa di trovare un varco da cui uscirne. E’ stata
disegnata lì. Come trovare una via di fuga. Ma chi?
Sono io che mi sto guardando? C’è uno specchio o cos’altro?
Poi tutto si svela. Un lieve aumento della luce, che, non diretto, sembra
essere quasi generato da una luce di luna che attraversi una finestra. Mi
concentro sul corpo. Arpa, corpo, luce. Un pezzo di quella carne si muove, ora.
La coscia, se è una coscia, si distacca dal busto, si
alza mantenedo orizzontale la gamba che subito dopo appare.
Un moncone con una protesi. No, non è assolutamente
una protesi. E’ un arto che nasce come per prendere forma e vita propria. La
sensazione generale è che si abbia di fronte una materia-corpo, come un vecchio
tronco dal quale, nelle giuste condizioni di temperatura ed umidità, emergano
strane forme fungive.
Abbasso la testa, non perché quello che vedo mi
sconforti, anzi è proprio ciò che vedo a trascinarmi
sul fondo. Ora guardo il pavimento. Una sensazione di schiacciamento mi
squassa, tento di risollevarmi …la gamba ora è di nuovo scomparsa,
riassorbita.
Rientro nel racconto e come in una visione
cinematografica, la cui ripresa era stata accelerata per ottenerne in fase di
proiezione il voluto rallentamento, mi sono poste
innanzi tre diverse fasi: dapprima un braccio e la mano di staccano e si
protendono verso l’aria, quasi a cacciare qualcosa o respingerne il fetore o
forse, mi dico, a portare lontano la propria natura. Quella che segue segna
qualcosa di inaspettato. Appare di colpo dall’ombra,
era sino allora presenza furtiva, la bianca tastiera di un pianoforte
verticale. E i suoni, che prima si erano sentiti nel
momento in cui l’arto si era inizialmente staccato dal corpo, appaiono ora
visivamente, agiti da qual strano meccanismo: i tasti bianchi e neri si
rincorrono sulla tastiera ma poi tacciono. L’attenzione ritorna sul corpo. Che sta ingaggiando una furibonda lotta con la gravità per
sollevare, credo, il bacino e la massa possente dei glutei, da terra, inarcando
il corpo tutto. Ma l’immagine non è nitida: è
sufficiente una breve disattenzione per vedere quel corpo, prima animato nel
tentativo di prendere vita, ora nuovamente morire. Ma l’attesa è di breve durata.
E mi dà la
possibilità di pensare. Sì, è vero, sto continuando a guardare, ma le immagini
ora si allungano come in un piano sequenza e danno al tutto
una forma più precisa. Anche se la spinta data
a quelle che sembrano spalle porta improvvisamente la massa in posizione
verticale, ora l’incertezza è svanita. La schiena, nervosa, è nascosta in parte
dalle cosce a dar la sensazione inversa : di corpo
senza gambe con testa infilata nel terreno.
Ma è pur vero che ora
è una donna quella che ci appare. La figura femminile dapprima seduta si alza
sull’arpa come se stesse preparandosi a rilasciare un impellente bisogno per
poi, piegando ferocemente la schiena in avanti, prendere la via di un essere
solo gambe e natiche, il cui orifizio apparentemente alla nostra vista si
nasconde per un sapiente gioco di ombre ed oscurità.
Ora mi sento tranquillo, come riportato alla
realtà. Quella di un corpo che misura e decide sempre nuove costruzioni di
carne. Il bacino ruota e porta la massa verso l’avanti dell’arpa in posizione
raccolta, le mani a stringere le ginocchia, con i glutei che finalmente si
adagiano sulle corde.
Tutto finalmente sembra acquietarsi. Appare un
volto, che poi vedremo mai più mostrarsi. E’ chiaro
come il costruttore della scena abbia portato la figura ad una sorta di
riconoscimento di sé, della propria fisicità operativa, di corpo che prima
senza organi ora mostra le sue protesi. Percorro le
linee delle piastrelle di gres davanti a me, in basso. Come se lo sguardo
appena lanciato fosse ancora lì.
Per scuotimenti e strisciamenti successivi la donna
riesce a portarsi sul limitare dell’arpa, allunga un piede, poi l’altro raggiunge
assai vicino il primo. Entrambi ora fanno leva, le
cosce di contraggono e la figura si alza. Cosa inaspettata ma non lontana. D’altro canto, la testa piegata in avanti a coprire
il proprio sguardo, ci mostra un essere nuovo, pronto. Con andatura canina la
donna aggira l’arpa: ora la ritroviamo a scorgere oltre l’orizzonte, da dietro,
come per studiare il profilo delle corde ammassate, lo sguardo abbassato ma
tagliente, cerca un varco o forse la zona per il miglior attacco. Ed è proprio
questo che avviene: dall’oscurità emerge la mano e quindi il braccio che vanno a poggiarsi sull’arpa, sulle corde in posizione media.
Il pugno, contratto, ora lascia emergere le dita che si pongono in posizione di offesa, lacerando e strisciando. Il suono che ne viene è
crudo, sanguigno. L’animale ora uscito dalla sua tana sembra scorgerne più
chiaramente la natura, si affloscia come gatto, a tratti come blatta che
strisci verso la salvezza infine riemerge e colpisce fieramente le corde con il
taglio della mano. Il suono questa volta squassa lo strumento stesso, le corde
vibrano e sovrappongono armonici e frequenze slabbrate. Ed ecco lo scatto in avanti portare la figura col
volto a schiacciare le corde, a smorzarne il suono, fino a farlo tacere. Sono
turbato da questo approccio: sullo strumento
martoriato agisce un corpo a tratti con delicatezza in altri casi con ruvidezza
ma la vicinanza tra i due - strumento ed esecutore – non sembra mai uscire da
un schema ben definito, come in una partitura armonica. Penso a Rameu, al suo
“corpo sonoro”, alle questioni che tanto lo hanno assillato sull’armonia
musicale; il temperamento equabile, questo terribile compromesso che sembra sì,
salvare lo strumento stesso, ma in qualche modo è certo portarlo lontano dalle
melodie naturali. Chissa se chi agisce sulla scena, ora, è perfettamente
conscio di ciò.
Qualcosa deve essere successo perché ora la figura
è già dalla parte opposta dell’arpa, allunga un piede come per salirvi sopra.
Un attimo di esitazione ed eccola, sul fascio di
corde, portare violentemente il capo verso terra, mostrando così l’intera
schiena che inizia a divincolarsi da immaginari lacci: lo sforzo è possente,
nello stesso tempo senza mostrar fatica, sostanza elastica che si ritrae e si
allunga.
In tutti questi frangenti ho sempre tralasciato di
descrivere l’altro protagonista, un pianoforte verticale che è posto in
strettta vicinanza con l’arpa posta a terra.
E’ oramai evidente che la figura interreagisce
direttamente con lo strumento/automa: ad accelerazioni del movimento della
donna sempre corrispondono glissandi, ora lenti ora velocissimi, in intensità e
in frequenza.
C’è un accordo tacito tra i due, una sembra sempre
anticipare l’altro quasi a portalo con sé o a
respingerlo.
E’ un organismo assai particolare quello che ci è posto dinanzi. Ne sono
turbato. Una macchineria animale. Un animale donna.
Uno strumento con anima. Non riesco in effetti ora a
staccare il pensiero dall’urphänomen heideggeriano. Mi riporto sulla scena: che
altrimenti rischia di sfuggirmi.
La figura si è nuovamente accucciata, lungamente
sembra cercare riposo o ritrovare la giusta concentrazione per ripartire e
darci l’ultima parte di sé, come vedremo poi.
Il piede sinistro si porta dietro a quello destro,
trascina la gamba con sé; il bacino ruota leggermente, il braccio sinistro si
porta lentamente ma decisamente a prendere possesso
con la mano di una solida parte della conchiglia metallica dell’arpa. Anche le
spalle si allungono nella stessa direzione e portano la testa sino ad un varco
che fino ad allora non si era notato sulla superficie
piana dell’arpa.
La testa portando con sé il corpo vi si infila e trascina bacino e gambe sino a che queste sono
obbligate ad ergersi vericalmente. Per chiarire meglio, il corpo ora è
rovesciato, in verticale con testa in basso e gambe in alto. Le spalle
appoggiate a due lati dell’arpa permettono alla testa di rimanere nascosta e
nello stesso tempo danno la possibilità alla donna di portare con facilità, od
almeno così appare, il corpo in alto. Le cosce sono ora racchiuse sul ventre,
le gambe orizzontali arretrano qualche millimetro alla volta.
La dislocazione delle masse muscolari ora avviene
con grande precisione, quasi spietata.
Ed ecco la svolta. Il
corpo pare rimbalzare, il bacino si contrae violentemente sino a portare le
gambe in alto, molto in alto. Ed il pianoforte inizia la sua folle corsa, i
tasti si rincorrono svelti , precisi, accordi
multipli, maggiori e a volte, pare, diminuiti. La tastiera sembra schiava della
donna, dei suoi movimenti. Quello che appare sono comunque due strumenti che agisscano all’unisono.
Le gambe incalzano sempre più concitatamente la
loro danza, sfuggono al corpo: ora abbiamo una nuova figura composta da sole game, o meglio le gambe sembrano l’animale stesso.
Il suono generato è prodigioso, glissandi complessi
si alternano a singoli accordi o, quando il movimento
sta per acquietarsi, a note solitarie che a tratti, incomprensibilmente, si
ripetono. La massa sonora sembra prendere forma seguendo leggi sue proprie; mano a mano che il racconto procede si è
portati dentro un vortice di variazioni in intensità e frquenza il cui
gradiente è comunque sempre riconducibile ai movimenti, agli acquietamenti ed
alle accelerazioni della donna.
Vorrei potesse continuare oltre; già la stanchezza
la vince e come se fosse tolta una corrente vitale la figura perde forza per accasciarsi sull’arpa.
L’oscurità prende il sopravvento e con essa la possibilità di averla sempre lì, quella donna,
accanto alla sua arpa, nel luogo della sua origine, nella sua tana.
|