La montagna dei segni
 
Appunti di lavoro
  "Ora il teorico è necessario e inutile e la ragione lavora per esaurire se stessa, alla ricerca di un sapere positivo in cui si riposa e nello stesso tempo si porta ad una estremità che costituisce arresto e chiusura. Noi dobbiamo passare attraverso questo sapere e dimenticarlo. Ma l'oblio non è secondario, è l'improvviso venir meno di ciò che si è costituito in ricordo".  
Maurice Blanchot
 
Appena giunte le fotografie con i rilievi topografici, cominciai a tracciare delle linee. Linee parallele, altre tra loro perpendicolari. Le tre figure sul blocco squadrato sembravano guardare nella direzione in cui io stesso stavo guardando. I segni dei picchetti, sorta di rilasci fossili, verticali, straordinariamente rettilinei, sforzi di macchine e mani umane, si incrociavano con le linee naturali delle stratificazioni. Uno straordinario reticolo che mi ricordava dell'azione brutale sulla natura ma rimandava comunque lontano, ad una sorta di alleanza di due possenti scultori.
Richiesi dal centro studi della Valpolicella alcuni testi. Osvaldo, che seguiva sul luogo l'operazione, mi inviò decine di fotocopie che illustravano l'antico lavoro del cavatore.
Ci recammo sul posto, a San Giorgio di Valpolicella; incontrammo alcuni vecchi cavatori e ne registrammo i racconti, le lunghe notti nelle gallerie illuminate dalle candele, i colpi ritmati dello scalpello sulla pietra, il rullio dei cilindri sotto i massi tagliati, il luccichio degli occhi attenti al consumarsi della miccia. "Mina" e un cavatore, urlando per le strade del paese, avvertiva gli abitanti dell'imminente varata.
Ogni giorno, alle ore 18.00, venivano fatti brillare gli esplosivi per staccare i blocchi dalla montagna. Quel cavatore che stava di fronte a me , la vedeva la nuvola di polvere staccarsi lentamente dalla parete. Dalla parte della sua montagna. E ne sentiva dolore; ma era il dolore di chi con l'aratro stacca le zolle per preparare il campo alla semina.
Quello straordinario paesaggio che sembrava mutilato da un'azione all'apparenza assurda dell'uomo, man mano che passava il tempo, sembrava fosse esso stesso a deformarsi, a mostrarsi. Ad aprire le sue brecce. Per giorni interi leggemmo su quelle enormi pareti istoriate, ideogrammi di una strana ed inconsueta civiltà, di un mondo che ci sembrava di cogliere solo nella sua apparenza minerale, inorganica: la pietra.
Certamente eravamo a conoscenza di una corrente di pensiero che affonda le proprie radici nella biologia, nella fisica, nella scienza dei calcolatori e nella matematica, per la quale la vita non è questione dei diversi materiali dei quali siamo composti, bensì dell'organizzazione degli elementi nel tempo e nello spazio, dell'interazione di rapporti e processi dei quali questi elementi fanno parte. D'altra parte, l'intuizione immediata e sostanziale che abbiamo della vita è che essa è caratteristica della terra, è legata al bisogno di acqua e alla circolazione di composti di carbonio.
Ed è certo che , benché sia difficile immaginare la vita in mancanza dì acqua, nessuno sa con certezza se il carbonio e l'acqua siano assolutamente indispensabili alla vita. Ma a noi non interessava sostenere le tesi dell'esobiologia. Volevamo trovare un piano di comunicazione con quella pietra, col corpo inorganico che ci sovrastava. Pian piano, cominciammo a sentirci ricercatori.

Cava Preara sui sengi . S. Giorgio di Valpolicella . settembre 1996

L'équipe di ricerca dell'Istituto di Geologia di Parigi, diretta dalla dottoressa Celine Didier, non avrebbe esitato a rimandare l'esperimento a causa del vento che avrebbe potuto in qualsiasi momento alterare il delicato equilibrio delle apparecchiature. Ma sul posto erano già arrivati con un certo anticipo le autorità, seguite da stampa e fotografo ufficiale, e il pubblico, in attesa in fondo al sentiero spianato per raggiungere la cava, era già numeroso.
Era necessario far brillare una mina, affinché quel boato così prepotentemente inscritto nella memoria degli abitanti della Valpolicella, ristabilisse una relazione "naturale" tra le persone ed il luogo: una cava a cielo aperto, in disuso da diversi anni, appena sopra il paese di S. Giorgio di Valpolicella. La dottoressa stessa accompagnava i presenti fino alla cava lungo il sentiero illuminato da torce. Circa 600 persone, mantenute a distanza di sicurezza dal servizio d'ordine, raggiungevano il luogo non sapendo precisamente di cosa si trattasse: teatro o esperimento scientifico? (Il professor Bottom, direttore della ricerca e assente la sera dell'esperimento dovendo presenziare ad una seduta di studio al Congresso mondiale di protoarcheologia che si svolgeva in quegli stessi giorni a Forlì, aveva dato precise delucidazioni in tal senso! E la dottoressa Celine Didier aveva ampiamente chiarificato gli scopi dell'operazione alla conferenza stampa tenutasi nella città di Verona).
La visione della cava dissolve ogni dubbio. Sulla destra, una grande tenda da campo: punto d'appoggio e rimessa per tecnici e cavatori durante il lavoro sul posto, durato quindici giorni, tra pioggia e vento. Più avanti, alcuni cavatori, diretti dall'assistente della dottoressa, stanno imbracando un enorme blocco di pietra appena distaccato dalla parete; un derrick alto 5 metri servirà più tardi a sollevare il masso dal quale verranno estratti alcuni campioni per l'analisi. In fondo alla cava, un gruppo di scalpellini sta ancora lavorando ad alcune estrazioni manuali. Stagliata sulla parete verticale, all'altezza di 6 metri, incredibilmente rimpicciolita dalle dimensioni del luogo, una figura sembra predisporre col piccone la sua strada .
Nella parte sinistra di questo anfiteatro naturale, un grande albero pietrificato, sorta di fossile incastonato nella pietra.... Sempre sul lato sinistro, questa volta all'ingresso della cava , un complesso apparato tecnico costituito da una "stanza di percezione" trasparente, sollevata da terra, con chiusura ermetica, collegata all'esterno con le apparecchiature di rilevamento degli impulsi della materia e della loro successiva decodificazione.
Di fronte a questo cantiere di lavoro, in cui cavatori e tecnici svolgono accuratamente le operazioni che precedono l'esperimento, la ricercatrice in camice bianco si accinge a relazionare circa le motivazioni della ricerca, le modalità di lavoro, i possibili risultati, gli ipotetici imprevisti.

Relazione della ricercatrice

La relazione è preceduta dall'intervento dell'Assessore alla Cultura sulla natura del progetto. La dottoressa rivolge ringraziamenti ufficiali all'Amministrazione che ha ospitato l'équipe di lavoro, consentito lo svolgersi dell'operazione e risolto le difficoltà incontrate durante il periodo di lavoro alla cava.
"Cercherò di spiegarvi in modo semplice i presupposti fondamentali di questo primo esperimento al quale questa sera potrete assistere.
Voi sapete che la litosfera ovvero la crosta terrestre è composta in buona parte da materiali silicei. Più del 90% in peso è rappresentato da ossidi di silicio. Abbiamo verificato che alcuni conglomerati silicei del giurassico, sottoposti all'azione combinata di pressione e temperatura elevatissime, hanno subìto adattamenti strutturali e mineralogici profondi. In particolare sono divenuti ricettacolo di microdiffusioni di impurità; ossia sostanze estranee, quali arsenuro di gallio, sono migrate all'interno del reticolo cristallino degli ossidi di silicio.
Siamo in presenza cioè di quel fenomeno che prende il nome di "drogaggio del silicio", tecnica che è alla base della realizzazione dei chips a lamina di silicio, ossia di quei microcircuiti integrati presenti nelle memorie dei nostri computer moderni .
Dopo lunghe ricerche che abbiamo svolto in Europa, abbiamo scoperto, e qui dobbiamo ringraziare il Prof. Luigi Petrosini dell'Istituto Superiore di Fisica Applicata dell'Università di Trieste, che proprio in alcune cave del territorio di S. Ambrogio, e in particolare in questa cava chiamata Preara sui sengi, si sono realizzate macroscopicamente le condizioni di cui ho parlato poco fa, da noi realizzate precedentemente in laboratorio.
Da qui l'ipotesi sensata, che dovrà essere comprovata dall'esperimento cui assisterete questa sera, in questo luogo, che la pietra possa essere ricettacolo di memoria inorganica.
Ma se, da una parte, a noi sembra naturale e logico che psiche e coscienza, e la memoria che le sostiene siano fenomeni che non risiedono nella materia inerte, bensì nelle strutture biologiche, dall'altra, ci accompagna l'interrogativo sul perché la vita sia accaduta mediante il carbonio, piuttosto che mediante il silicio.
Noi sappiamo dalla biologia, come certi amminoacidi basici non ionizzati, in presenza di purine, abbiano dato origine a molteplici combinazioni capaci di portare alla vita.
D'altra parte, nel mondo inorganico è noto come forme allotropiche di uno stesso elemento presentano tra loro caratteristiche assolutamente distanti: è il caso proprio del carbonio che può essere sotto forma di carbone, di grafite, e, se sottoposto a pressione molto elevata, diventa diamante.
Ma la relazione tra inorganico e biologico è molto complessa e non si può affrontare qui, soprattutto in piedi. Chiudo questa parentesi e arrivo direttamente al nostro esperimento.
Dunque, se la pietra può essere ricettacolo di memoria inorganica, come dicevo, a partire da questo noi abbiamo costruito un apparecchio in grado di rivelare particolari concentrazioni di silicio presenti nella roccia, successivamente di leggerne i segnali, ovvero le informazioni che essa può contenere. In altre parole, la macchina è in grado di intercettare i segnali e decodificarli in un idioma sufficientemente comprensibile.
Naturalmente, il controllo completo sulla situazione sperimentale sarebbe possibile solo nelle seguenti condizioni:
1 se si conoscessero tutti i fattori da cui può dipendere il fenomeno che stiamo studiando; cioè se noi fossimo in possesso di una teoria definitiva del fenomeno indagato;
2 se fosse possibile realizzare l'isolamento assoluto del sistema che stiamo studiando dall'influenza di questi fattori.
Ora il teorico è necessario e inutile, e la ragione lavora per esaurire se stessa, alla ricerca di un sapere positivo in cui si riposa e nello stesso tempo si porta ad una estremità che costituisce arresto e chiusura. Noi dobbiamo passare attraverso questo sapere e dimenticarlo. Ma l'oblio non è secondario. E' l'improvviso venir meno di ciò che si è ricostituito in ricordo".
Al termine della relazione la dottoressa invita i presenti ad un rigoroso silenzio per procedere all'esperimento. Il servizio d'ordine consente un maggiore avvicinamento del pubblico. I cavatori, terminata l'imbracatura dell'enorme blocco di pietra, procedono al suo agganciamento al derrick .
E' necessario modificare la posizione del blocco per consentire un più agevole prelievo dei campioni di pietra, nei punti precedentemente individuati dalla ricercatrice. Il derrick solleva lentamente il masso di pietra; i cavatori predispongono in giusta posizione le travi di appoggio.
Noi ricercatori sappiamo molto bene che la gente del luogo conosce le operazioni che si svolgono nelle cave, ed è per questo che mettiamo estrema attenzione nel compierle, come se ci appartenessero. Allo stesso modo, sappiamo che per la maggior parte dei presenti è un privilegio assistere ad operazioni di questo genere, in quanto nelle cave è rigorosamente vietato l'accesso ai non addetti ai lavori, ad accezione, ma soltanto nel tempo passato, delle donne, che durante la pausa portavano il cibo ai cavatori.
Un prelievo viene trasportato alla macchina, sollevato e depositato nella cella, richiusa ermeticamente. Ora è la dottoressa ad innescare progressivamente i collegamenti della cella con le apparecchiature.
Il monitor registra i segnali percettivi provenienti dalla pietra; le apparecchiature reagiscono ai segnali provenienti dall'interno della cella. I segnali che il monitor riceve vengono proiettati sulla parete verticale della cava stessa. Il luogo, illuminato fino ad allora dai fuochi intorno alle postazioni di lavoro, pare assumere una luce propria: la materia comincia a raccontare di sé e a rivelarsi attraverso i segni delle stratificazioni.
L'esperimento viene turbato dalla voce degli scalpellini ancora in lavorazione intorno al grande masso di pietra. Dalla roccia inerte comincia a fuoriuscire lentamente qualcosa di organico; altri richiami avvertono che lo stesso fenomeno si sta verificando in altri punti della cava. Per la dottoressa Celine è ora difficile continuare a percorrere le fasi fissate in anticipo; confusa ma cosciente, partecipa di quanto sta avvenendo.
Questa materia segue un tracciato nella cava che pare voglia ricongiungersi alla parete stessa. L'occhio segue finché è possibile. Fino al silenzio.

Lorenzo Bazzocchi
 
> masque