Visionarietà surreale e architetture teatrali

di Andrea Nanni

 

Fedele a un immaginario scandito da macchine celibi a un tempo ludiche e minacciose - monumentali concrezioni metalliche di concatenazioni senza soggetto - Masque Teatro si distingue nel panorama del nuovo teatro italiano per un linguaggio scenico nutrito di suggestioni costruttiviste ed echi biomeccanici, un idioma fortemente visionario e stratificato, in cui si intrecciano archeologia industriale e matericità contadina, rigore scientifico e ossessione filosofica.

Lorenzo Bazzocchi, fondatore insieme a Catia Gatelli del gruppo romagnolo, è, oltre che regista e attore, prima di tutto autore di architetture sceniche totalizzanti, nelle quali gli interpreti si inseriscono come ingranaggi anomali o come appendici generate da una anch'essa anomala partenogenesi (è quanto avveniva con particolare evidenza in Nur Mut), luoghi che accolgono al loro interno sparuti drappelli di testimoni oculari (gli spettatori), talvolta avvinti della stasi di un lounge theatre in cui una dichiarata inclinazione speculativa flirta con seduzioni virtuali (era il caso dei Vapori della sposa), talvolta costretti a solitarie peregrinazioni in labirinti in cui si finisce per imbattersi nella propria immagine (come succedeva in Coefficiente di fragilità).

Anche nella sua ultima creazione ‑ Postanovscik, termine russo che designa il regista come "architetto dello spettacolo" in contrapposizione all'accezione di "direttore di attori" - Masque Teatro ingloba il pubblico in una struttura metallica che, nonostante l'iniziale impressione di normalità (gli spettatori sono collocati su una piccola gradinata posta secondo il consueto asse di visione frontale rispetto alla scena) riserva non poche sorprese, progressivamente svelate nel corso dello spettacolo. L'inizio si svolge in un interno notturno e claustrofobico, una camera da letto delimitata da una porta a vetri, vero e proprio diaframma oltre il quale si precipita in una dimensione anamorfica animata da bianchi schermidori sospesi nel buio e da figure sparute e illividite, burattini pronti a scrollarsi di dosso identità malferme, simulacri avvolti in pesanti cappotti di feltro, ombre in transito, magari insofferenti alla tirannia del linguaggio.

II pubblico segue il loro viaggio verso la zona tarkovskiana memoria a cui tutti tendono rimanendo seduti sulla tribuna che, montata su rotaie, si inoltra aldilà della porta a vetri del prologo descrivendo un lungo carrello cinematografico che, dopo circa trenta metri, si arresta davanti alla tanto agognata zona, uno stanzino bianco in cui, dismessi i panni (mai indossati del tutto) dei personaggi, gli attori si lasciano guardare per un attimo nella sospensione del fuori scena, terra di nessuno tra reale e immaginario dalla quale si viene allontanati con un vertiginoso carrello all'indietro che risucchia gli spettatori‑testimoni verso il fondo dello spazio riportandoli al punto di partenza.

Prima parte di un dittico in via di elaborazione Postanovscik può contare, a differenza di quanto accadeva in altri lavori di Masque Teatro, su una potenza evocativa mai appesantita da inserti didascalici, in felice equilibrio tra beffarda allusività e pudico svelamento: perfino il flagrante omaggio all'estetica surrealista ‑ con l'incontro, stavolta deliberato, di un ombrello e di una macchina da cucire, qui non su un tavolo anatomico, come immaginava Breton, ma ai bordi di una pedana basculante, perde la sua connotazione storica per incorniciare l'apparizione del postanovscik, icona in bilico tra Oriente e Occidente, maschile e femminile, sublime e cialtronesco architetto del caso, messaggero muto della vertigine del vuoto.