POSTANOVSCIK

di Stefano Mancini

Nell’Ex-Filanda di via Orto del fuoco a Forlì si è consumato negli scorsi giorni l’ultimo rito teatrale del gruppo forlivese masque teatro: di rito si deve parlare se non si vuole definire l’allestimento di “POSTANOVSCIK” uno spettacolo nel senso in cui il teatro odierno rischia di venire fagocitato quando non viene inteso come la ricerca di un dialogo tra pensiero filosofico e drammaturgia.

Questo rischio il gruppo masque non lo corre: lo scampa. La sua ricerca espressiva è innaturata su forti premesse epistemologiche che non si traducono in mere operazioni concettuali ma si risolvono in una produzione teatrale dove le componenti estetiche sono la ricaduta fisica di un processo visionario del pensiero prima ancora di ospitare significati o esposizioni simboliche di là da venire.

Tutti gli elementi della messa in scena teatrale di “POSTANOVSCIK” (spazio scenico, corpi attoriali, macchine, oggetti di scena, testo, spettatori) concorrono a costituire in “unicum” in modo assolutamente speciale. Lo spazio scenico, innanzitutto, non è un contenitore ma una “macchina complessa”. I corpi, le parole e gli oggetti sono all’interno di questo spazio delle funzioni, cioè “ci sono” in funzione estetica per la capacità di funzionare e destituite della capacità di produrre. In questo senso essi sono  dei software installati in un hardware che è lo spazio scenico, o macchine istruite per pensare e che cioè fanno funzionare il pensiero in modo “automatico”, o ancora algoritmi di un movimento retroattivo di feedback che elaborano dati in forma linguistica producendo icone infinitamente combinabili in un stile modulare del tipo cibernetico o insiemistica. Sono quindi tutti elementi virtuali e al tempo stesso dotati di una loro peculiare presenza fisica, rispondendo al significato ermeneutico (che il regista Lorenzo Bazzocchi evince da Deleuze e Guattari) di “costruzioni filosofiche stritolanti”.

L’intero “prodotto” teatrale non è quindi la ricaduta di un senso che è ‘prima’ dell’opera e che l’opera starebbe solo a ‘significare’, ma significa se stesso ossia il suo proprio meccanismo. Lo stesso regista – che evita e vivrebbe come un plagio la messinsscena di testi teatrali preesistenti – sta all’interno dell’opera, non come attore (chi compie azione scenica) ma come autore (colui che fa avanzare e pro-muove azioni reiterabili e combinabili) senza una trama prestabilita: “L’uomo del racconto diventa l’uomo che racconta” dice il foglio di sala. Gli spettatori, seduti su di una piccola tribuna semovente, vengono inoltrati per passaggi progressivi all’interno dell’opera e giungono in una scena in cui si sentono superflui e indiscreti voyeurs di un “dietro-le-quinte” in cui gli attori appaiono indifferenti a loro ed alla stessa opera, mentre il regista, invisibile, si trova alle spalle dell’intera scena e della stessa tribuna. L’opera dei masque non può essere fagocitata da elementi esterni ad essa (che siano gli spettatori, i critici, o il sistema sociale tout court) perché funziona come un automa, prende vita da sola, e quindi “automaticamente” si auto-fagocita: includendo al suo interno lo stesso regista, si automatizza; ed includendo lo spettatore (alienandolo e sospendendo la sua coscienza ed il suo giudizio), inibisce o rende superflua la sua residua possibilità di fagocitarla. “Felicità, felicità per tutti. Nessuno uscirà di qui insoddisfatto!” è l’ultima frase di “POSTANOVSCIK”. Tutti all’interno di masque non sono altro che se stessi in versione virtuale, in un’esperienza emozionale e conoscitiva straordinaria: un rito.