home | ||||||||||
MARMO Su una civiltà esausta |
||||||||||
con Lorenzo Bazzocchi, Eleonora Sedioli, Silvia Proietti, Matteo Ramon Arevalos, Giacomo Piermatti elettronica Matteo Gatti macchine Lorenzo Bazzocchi tecnica Andrea Basti, Tommaso Maltoni costumi Anna Bazzocchi scenografie Eleonora Sedioli musiche Matteo Ramon Arevalos, Giacomo Piermatti organizzazione Jessica Imolesi fotografia Enrico Fedrigoli ideazione e regia Lorenzo Bazzocchi produzione Masque Teatro co-produzione Mood Indigo_Bologna |
||||||||||
Come reagisce l’uomo alla notizia che la natura delle cose non è univoca e si manifesta con una doppia immagine meccanica e vibrazionale al tempo stesso? Come sopravvivere alla propria morte senza avere certezza della propria consistenza? Ricordo interminabili discussioni con mio padre Giulietto, maestro elementare, e le congetture fantastiche che formulavo ogniqualvolta si parlava di spazio e di tempo. Qualcuno lancia un sasso e lo va a raccogliere. Se si suppone che i lanci procedano in linea retta egli sarà sempre in grado, prima o poi, di raggiungere quel sasso e di scagliarlo nuovamente in avanti. Reiterando all’infinito quel gesto supponevo si potesse dimostrare, quasi banalizzandola, l’infinità dello spazio. Mio padre sempre rispondeva che, come qualcun altro ha ben detto, lo spazio potrebbe esser curvo e che quindi il mio peregrinare verso l’infinito potrebbe non essere altro che un girare intorno a noi stessi. Rimanevo comunque convinto della mia originaria sensazione. L’inconciliabilità tra quello che appare come razionale ed evidente ai nostri sensi e la vera natura delle cose mi spinge a ricercare con pervicacia, anche se con notevole affanno, quello stato originario che possa far avanzare, passo dopo passo, verso la propria riconoscibilità. Vorrei chiamare questo affanno “passività”. Una sorta di danza sul posto, un assalto ritmico al disastro che perennemente ci sta sopra, in bilico tra la condizione del non vivente e quella di colui che assiste alla propria morte. Di qui la necessità di esercitarsi alla resurrezione. Un approssimarsi cauto, questo. Senza cautela, invece, e senza avviso, la figura, quattro volte duplicata, si aggira nel luogo della scena alla ricerca perennemente irriconoscibile della propria esteriorità. Essere scorticati sta a dire star lì senza la pelle o con la pelle a brandelli. Ricoprire la carne con polvere di talco per tamponare l’emorragia in corso. La vita che dai pori trasuda e se ne va. Sono, tutti e quattro, ancora lì a cercare una strada che conduca all’immortalità o meglio al dopo la loro morte: procedono con la forza primordiale del fanciullo. E che questa forza li trascini nel gorgo dell’ignoto! Creare è mettersi in gioco. Progettare le cadute senza studiare la risalita. Mettersi a repentaglio per amore del rischio. O meglio, edificare una sensazione di costante mutevolezza. Che la terra perda consistenza sotto i nostri piedi. Oppure, ancora, diventare d’argilla per potersi plasmare. O di pietra, meglio di marmo, per resistere agli assalti furiosi dell’omologazione. |
||||||||||