Postanovscik |
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Registrazione
fedele dei movimenti della mente di un uomo alle prese
con uno spazio vuoto.
Davanti a
lui una parete bruciata, arsa dal fuoco.
Aspetta.
Si siede a terra e guarda.
Il treno
delle vite che si affacciano sul quel luogo corre veloce,
binari paralleli in incessante allontanamento.
Sembra
quasi che quella
Lontano
dalla realtà. Egli ben sa che il suo agire non gli serve per farsi conoscere al
mondo, quanto per conoscerlo.
Manda
pattuglie in avanscoperta, crea avamposti in un territorio che, se dice non può
essere nemico, ha certo regole diverse, logiche altre.
Dove troverà la forza, questa volta, per attivare relazioni con altre figure e con
altri materiali?
Di chi sto
parlando? Mi sposto di pochi millimetri al giorno. Non
mi appartengo di certo.
L’uomo del
racconto diventa l’uomo che racconta. Ed aspetta. Una porticina si spalanchi.
Ha
pazienza. La pazienza dell’incauto, del successivo.
Un attimo
si compone, infiniti attimi, un secondo. E già sembra una eternità.
Lavora
nelle acciaierie con 20000 Hz nelle orecchie per avere il consenso della
scoperta.
Viaggia
per uomini, lui che aborrisce il consesso umano.
Li trova
sui marciapiedi, nelle casematte abbandonate, dove il fumo fatica ad uscire, si
siede in mezzo a loro, non visto, quasi mai calpestato, sempre annusato.
Lascia una
scia riconoscibile, da chi?.
Mai si co
Nel campo
l’uomo ha visto una cassa. Vi mette le mani di fango, allaccia nodi alle gambe.
La donna
nuda si mostra, la fenditura si è aperta e lei corre veloce, sospinge le oche
oltre la linea, fino alla stanza bianca. Scompare.
La
cordicina tira la nuca, il corpo compie una rotazione. E’ lì, un martello in
mano, due chiodi.
Le gambe
si flettono, una caduta verso il basso, il bacino raccoglie le spoglie del
busto e le conduce a terra. L’avambraccio si inclina,
permette il contatto.
Altre
torsioni lo portano sui binari.
Il midollo
osseo è schiacciato dal peso insopportabile del corpo?
Il
fardello del testo lanciato dall’altro lo offende, si scuote e cade sempre più
in basso.
L’ossessione
di un pensiero. Del pensiero.
Fatto di
carne? Pensieri di carne, carne fatta di pensieri.
C’è qualcosa
che incalza. Il carnefice è pronto per il colpo. E il
loop si avvia.
Trascinato
dalla descrizione di ciò che accade, incline al suicidio per sempre se ne allontana, al teatro concede la parola estrattore ben
sapendo di lanciare a voi e a se stesso il dardo dell’illusione.
Eppure è questo che lo muove, che sposta macigni in vece sua, li colloca sulla vetta e
li scaglia come fulmini.
I passanti
si voltano, non toccati, ignari. Tu ci sei? Usa pure quei così-così, fanne ciò
che vuoi.
Ma non
li avrai mai.
Soffre del
dialogo, della comunicazione simulata, apre se stesso al movimento come parola
non detta, solo pensata e scende verso la terra come appoggiato ad un declivio.
Una foglia
cade dall’alto, sfiora la sua schiena e diviene mano senza braccio, sostegno
invisibile per la sua caduta.
Gli occhi
della figura al tavolo lo portano, trasfigurata dall’estasi della ritrovata
realtà, lei che aspetta intere settimane, come
E’ il
momento di appoggiare il polso sul terreno, prepara il corpo a rivoltare se
stesso.
Dove mi
trovo, ora? Sul palcoscenico? Passa l’avambraccio davanti agli occhi.
Tutto scompare.
Devi
tornare indietro…. e lui va all’inizio.
Vive
(esiste?) dei propri pensieri.
La stanza
visiva.
E’
tormentato dal fatto che tutto sembra dirgli che egli
appartiene alla stanza visiva ma che la stanza visiva non gli può appartenere.
Orbene
egli vuol dimostrare a se stesso che il suo è l’unico sguardo possibile.
Come
potrebbe altrimenti entrare in quello spazio vuoto, da dove potrebbe trovare la
forza per iniziare l’i
Egli ha
ben presente l’esperimento di Cartesio sull’occhio, come d’altra parte è vivo
in lui quello analogo condotto da Wittgenstein.
E’ a
questo punto che egli introduce un terzo esperimento, fittizio.
Ma la luna
esiste se non la si guarda?
Naturalmente la luna esiste, ma questo naturalmente chi lo ha detto?
La freccia
scoccata scomparendo oltre il limitare del bosco, esiste?
Perché il Postanovscik, fa entrare in gioco questa domanda?
La stanza
visiva è la totalità degli sguardi; un soggetto pone il suo occhio verso il
mondo e ha uno sguardo del mondo.
Lui
raccoglie uno dei possibili sguardi; allora, in questo senso, la stanza visiva
che è il mondo della visione, ci ingloba, cioè noi
apparteniamo ad essa ma essa non ci può appartenere, perché il nostro è
solamente uno dei tanti sguardi possibili.
Con la
domanda – la luna esiste solo se la si guarda? – egli
annulla la certezza (frutto dell’abitudine) dell’esistenza degli oggetti che
noi non possiamo percepire, mette in dubbio la stessa esistenza degli altri
possibili sguardi. Fa diventare il suo l’unico sguardo possibile.
Egli è
conscio di abitare un’illusione. Giorno dopo giorno ne
cerca di rafforzare l’i
Conduce
esperimenti per dimenticare l’origine illusoria del proprio agire.
Ed elabora
strutture di relazione che gli permettano di
dimenticare che ha dimenticato.
Mette le
fondamenta per la creazione di un’altra realtà.
L’abbandono
definitivo della simulazione lo raggiunge nel momento in cui riesce ad
affermare che il mondo in cui vive è una prigione.
E si
predispone con tutte le forze per abbandonarlo.
Si mette
nella condizione dell’attesa.
E nella sua mente alberga un altro pensiero.
Considera
la nozione di visione e il suo occhio vede pensieri, sente la presenza di un pensiero-occhio che
lui dice vedersi nell’accadere che tenta di descrivere.
Qualcuno
gli dice che in realtà vediamo, ossia percepiamo e
sentiamo, sempre e solo esempi.
E di
questo lui ne fa la via per procedere. Stabilisce la regola da infrangere.
Quando,
già da molto tempo ha visto con chiarezza nello Stalker di Tarkovskij e in
quello dei fratelli Strugatski la possibilità dell’esempio, ripensa a quella
porta a vetri che separa il luogo
della visione da quello dell’attesa, vede un uomo separato dall’altro, il luogo della
scena e il luogo dello spettatore, vede una porta, l’ostacolo, e vede un occhio
del mondo affiancarsi al luogo che dell’agire fa il suo occhio.
La porta
che si spalanca e la tribuna che avanza leggera sui binari sono la necessità
solida di conferma dell’accadere del pensiero, del
desiderio, dell’abbandono.
Fatto che
anticipa se stesso, che matura nel suo finire.
Non c’è
più tempo.
Il nostro
treno è arrivato.
Già lei
sulla soglia.
Il
tritacarne
La
porticina si apre. E noi siamo con loro.
L’impossibilità di essere lì.
Lo stalker
pone il braccio sul piatto di una stadera. Che non
c’è.
I pesi
sono sorrisi, ansie, fatica, ricordi.
Veniamo
strappati da quel luogo, semplicemente allontanati.
Come
vorrebbe restare lì, con loro.
Qualcuno
lancia un dado. Pareti si aprono, un portale avanza e fissa il limite
dell’azione.
Ed Arthur sale la collina, l’altra figura, in piedi, col viso rivolto altrove.
Sguardi
senza tempo.
Gli occhi
chini a chiedere un inizio.
Perché debolezza è forza e potenza è niente.
Ascolta,
lui, che non è con loro. Sull’asse di quel tavolo da dissezione, dietro la
scena.
A fianco
ha una cucitrice ed un parapioggia. E’ al buio. Le luci sono oltre.
Su quel letto
di solitudine e morte la sente scendere dalla collina, i passi dell’incontro,
la voce strozzata sul nascere.
Felicità,
felicità per tutti. Nessuno uscirà di qui
insoddisfatto!
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