Postanovscik
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Visionarietà surreale e architetture teatrali
Andrea Nanni
 
Uno sguardo tra ferocia e timidezza
Silvia Bottiroli
 
Nessuno uscirà di qui insoddisfatto!
Stefano Mancini
 
       
 

Registrazione fedele dei movimenti della mente di un uomo alle prese con uno spazio vuoto.

 

Davanti a lui una parete bruciata, arsa dal fuoco.

Aspetta. Si siede a terra e guarda.

Il treno delle vite che si affacciano sul quel luogo corre veloce, binari paralleli in incessante allontanamento.

Sembra quasi che quella parete non sia i mm obile bensì fugga indietro con una lentezza vertiginosa.

Lontano dalla realtà. Egli ben sa che il suo agire non gli serve per farsi conoscere al mondo, quanto per conoscerlo.

Manda pattuglie in avanscoperta, crea avamposti in un territorio che, se dice non può essere nemico, ha certo regole diverse, logiche altre.

Dove troverà la forza, questa volta, per attivare relazioni con altre figure e con altri materiali?

Di chi sto parlando? Mi sposto di pochi millimetri al giorno. Non mi appartengo di certo.

L’uomo del racconto diventa l’uomo che racconta. Ed aspetta. Una porticina si spalanchi.

Ha pazienza. La pazienza dell’incauto, del successivo.

Un attimo si compone, infiniti attimi, un secondo. E già sembra una eternità.

Lavora nelle acciaierie con 20000 Hz nelle orecchie per avere il consenso della scoperta.

Viaggia per uomini, lui che aborrisce il consesso umano.

Li trova sui marciapiedi, nelle casematte abbandonate, dove il fumo fatica ad uscire, si siede in mezzo a loro, non visto, quasi mai calpestato, sempre annusato.

Lascia una scia riconoscibile, da chi?.

Mai si co mm uove, aspro com’è con se stesso. Ma le tre oche aspetteranno.

Nel campo l’uomo ha visto una cassa. Vi mette le mani di fango, allaccia nodi alle gambe.

La donna nuda si mostra, la fenditura si è aperta e lei corre veloce, sospinge le oche oltre la linea, fino alla stanza bianca. Scompare.

La cordicina tira la nuca, il corpo compie una rotazione. E’ lì, un martello in mano, due chiodi.

Le gambe si flettono, una caduta verso il basso, il bacino raccoglie le spoglie del busto e le conduce a terra. L’avambraccio si inclina, permette il contatto.

Altre torsioni lo portano sui binari.

Il midollo osseo è schiacciato dal peso insopportabile del corpo?

Il fardello del testo lanciato dall’altro lo offende, si scuote e cade sempre più in basso.

L’ossessione di un pensiero. Del pensiero.

Fatto di carne? Pensieri di carne, carne fatta di pensieri.

C’è qualcosa che incalza. Il carnefice è pronto per il colpo. E il loop si avvia.

Trascinato dalla descrizione di ciò che accade, incline al suicidio per sempre se ne allontana, al teatro concede la parola estrattore ben sapendo di lanciare a voi e a se stesso il dardo dell’illusione.

Eppure è questo che lo muove, che sposta macigni in vece sua, li colloca sulla vetta e li scaglia come fulmini.

I passanti si voltano, non toccati, ignari. Tu ci sei? Usa pure quei così-così, fanne ciò che vuoi.

Ma non li avrai mai.

Soffre del dialogo, della comunicazione simulata, apre se stesso al movimento come parola non detta, solo pensata e scende verso la terra come appoggiato ad un declivio.

Una foglia cade dall’alto, sfiora la sua schiena e diviene mano senza braccio, sostegno invisibile per la sua caduta.

Gli occhi della figura al tavolo lo portano, trasfigurata dall’estasi della ritrovata realtà, lei che aspetta intere settimane, come senza vita , quell’attimo, quel luogo, incolmabili dalla passione di un esistere che la coglie. Levita il suo corpo, i piedi non sfiorano la terra, la sua voce pare entrare in essa ed uscire da mille fori, dai pori della pelle. La bocca quasi vuota.

E’ il momento di appoggiare il polso sul terreno, prepara il corpo a rivoltare se stesso.

Dove mi trovo, ora? Sul palcoscenico? Passa l’avambraccio davanti agli occhi. Tutto scompare.

Devi tornare indietro…. e lui va all’inizio.

Vive (esiste?) dei propri pensieri.

La stanza visiva.

E’ tormentato dal fatto che tutto sembra dirgli che egli appartiene alla stanza visiva ma che la stanza visiva non gli può appartenere.

Orbene egli vuol dimostrare a se stesso che il suo è l’unico sguardo possibile.

Come potrebbe altrimenti entrare in quello spazio vuoto, da dove potrebbe trovare la forza per iniziare l’i mm ane fatica che questo comporta?

Egli ha ben presente l’esperimento di Cartesio sull’occhio, come d’altra parte è vivo in lui quello analogo condotto da Wittgenstein.

E’ a questo punto che egli introduce un terzo esperimento, fittizio.

Ma la luna esiste se non la si guarda?

Naturalmente la luna esiste, ma questo naturalmente chi lo ha detto?

La freccia scoccata scomparendo oltre il limitare del bosco, esiste?

Perché il Postanovscik, fa entrare in gioco questa domanda?

La stanza visiva è la totalità degli sguardi; un soggetto pone il suo occhio verso il mondo e ha uno sguardo del mondo.

Lui raccoglie uno dei possibili sguardi; allora, in questo senso, la stanza visiva che è il mondo della visione, ci ingloba, cioè noi apparteniamo ad essa ma essa non ci può appartenere, perché il nostro è solamente uno dei tanti sguardi possibili.

Con la domanda – la luna esiste solo se la si guarda? – egli annulla la certezza (frutto dell’abitudine) dell’esistenza degli oggetti che noi non possiamo percepire, mette in dubbio la stessa esistenza degli altri possibili sguardi. Fa diventare il suo l’unico sguardo possibile.

Egli è conscio di abitare un’illusione. Giorno dopo giorno ne cerca di rafforzare l’i mm agine.

Conduce esperimenti per dimenticare l’origine illusoria del proprio agire.

Ed elabora strutture di relazione che gli permettano di dimenticare che ha dimenticato.

Mette le fondamenta per la creazione di un’altra realtà.

L’abbandono definitivo della simulazione lo raggiunge nel momento in cui riesce ad affermare che il mondo in cui vive è una prigione.

E si predispone con tutte le forze per abbandonarlo.

Si mette nella condizione dell’attesa.

E nella sua mente alberga un altro pensiero.

Considera la nozione di visione e il suo occhio vede pensieri, sente la presenza di un  pensiero-occhio che lui dice vedersi nell’accadere che tenta di descrivere.

Qualcuno gli dice che in realtà vediamo, ossia percepiamo e sentiamo, sempre e solo esempi.

E di questo lui ne fa la via per procedere. Stabilisce la regola da infrangere.

Quando, già da molto tempo ha visto con chiarezza nello Stalker di Tarkovskij e in quello dei fratelli Strugatski la possibilità dell’esempio, ripensa a quella porta a vetri che separa il luogo

della visione da quello dell’attesa, vede un uomo separato dall’altro, il luogo della scena e il luogo dello spettatore, vede una porta, l’ostacolo, e vede un occhio del mondo affiancarsi al luogo che dell’agire fa il suo occhio.

La porta che si spalanca e la tribuna che avanza leggera sui binari sono la necessità solida di conferma dell’accadere del pensiero, del desiderio, dell’abbandono.

Fatto che anticipa se stesso, che matura nel suo finire.

Non c’è più tempo.

Il nostro treno è arrivato.

Già lei sulla soglia.

Il tritacarne la avvolge. Si difende come può.

La porticina si apre. E noi siamo con loro. L’impossibilità di essere lì.

Lo stalker pone il braccio sul piatto di una stadera. Che non c’è.

I pesi sono sorrisi, ansie, fatica, ricordi.

Veniamo strappati da quel luogo, semplicemente allontanati.

Come vorrebbe restare lì, con loro.

Qualcuno lancia un dado. Pareti si aprono, un portale avanza e fissa il limite dell’azione.

Ed Arthur sale la collina, l’altra figura, in piedi, col viso rivolto altrove.

Sguardi senza tempo.

Gli occhi chini a chiedere un inizio.

Perché debolezza è forza e potenza è niente.

Ascolta, lui, che non è con loro. Sull’asse di quel tavolo da dissezione, dietro la scena.

A fianco ha una cucitrice ed un parapioggia. E’ al buio. Le luci sono oltre.

Su quel letto di solitudine e morte la sente scendere dalla collina, i passi dell’incontro, la voce strozzata sul nascere. 

Felicità, felicità per tutti. Nessuno uscirà di qui insoddisfatto!

 
     
       
con
Daniela Bianchi, Eleonora Sedioli, Andrea Basti, Lorenzo Bazzocchi, Roberta Raineri, Catia Gatelli, Olivier Caumont
suoni e mappatura ambiente
Mirko Fabbri
luci
Lorenzo Lopane
architetture sceniche
Lorenzo Bazzocchi
allestimento
Eleonora Sedioli, Andrea Basti, Roberta Raineri, Manuela Savioli, Lorenzo Bazzocchi, Catia Gatelli
assistente alla regia
Catia Gatelli
regia
Lorenzo Bazzocchi
organizzazione, ufficio stampa
Catia Gatelli
produzione
Associazione Culturale Masque, Festival Crisalide
col contributo di
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
 
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